Paolo Saporiti, identità e canzoni

La mia falsa identità è l'album definitivo di Paolo Saporiti: lo abbiamo intervistato

Paolo Saporiti
Paolo Saporiti (foto di Mariagrazia Giove)
Articolo
pop

Ci sono alcuni personaggi il cui alto profilo artistico è pari soltanto alla loro capacità di stare lontano dai riflettori; parliamo dell’underground musicale italiano, ma probabilmente la stessa cosa si potrebbe dire per molti altri settori.

Paolo Saporiti è uno di questi; approcciando il suo nuovo disco, siamo rimasti meravigliati a scoprire che è già il suo nono album in studio – dovremmo quindi aggiungere il live di Acini (uscito nel 2019 e a tutti gli effetti la sua penultima pubblicazione) e la parentesi con i Todo Modo, la band che aveva formato con Xabier Iriondo e Giorgio Prette in uscita dagli Afterhours, con la quale ha inciso due dischi tra il 2017 e il 2018.

Saporiti però è sempre stato straordinariamente bravo; alcuni se n’erano accorti ai tempi del suo unico disco su major (Alone, Universal 2010), probabilmente il suo momento di massima popolarità, ma chi ha continuato a seguirlo sa della sua classe inappuntabile.

Tuttavia, con il recente La mia falsa identità, uscito sul finire del 2023, c’è stato un ulteriore scarto qualitativo, e per una volta possiamo sbilanciarci a usare il termine “capolavoro”. Presentato non a caso come il suo disco “definitivo”, è imponente sia nelle dimensioni (si tratta di un doppio con 20 canzoni, e diverse di queste sono piuttosto lunghe) che nella ricchezza del contenuto, per cui collocarlo in ambito cantautorale sarebbe limitante – ci troverete brani spogli per voce e chitarra, certo, ma anche rumorosi inserti elettrici, orchestrazioni, elettronica, e una sensazione di intimità melodica capace veramente di creare continue emozioni.

Il titolo può apparire ambiguo, poiché è evidente che qui Saporiti si presenta nudo e vero al 100%, ma richiama proprio l’intenzione dell’autore di non volersi incasellare in uno stile, ma al contrario aprirsi a tante identità diverse e a proporsi di volta in volta nel modo più adatto a esprimere il sentimento specifico.

Paolo Saporiti

La genesi del disco è stata lunga e complessa; parte da una situazione personale che poi si è evoluta in una crescita umana e artistica; sentiamola dalla viva voce di Paolo.

«Arrivavo dalla storia più lunga della mia vita. Nove anni di speranze tradite, rinchiuse in un palmo, e scagliate con violenza, fuori dalla finestra. Col coltello stretto tra i denti. Una manciata di lutti ancora da elaborare: quello di lei e di suo figlio, che ho visto crescere; il cane e i suoi amici, i suoi cugini, cui volevo già un bene dell’anima e che non ho mai più potuto incontrare; suo padre, che ho seguito in tutta la parabola discendente, dovuta alla peggiore delle malattie, replica di quella di mio padre e di mio nonno. Sua madre, per la quale ho davvero provato un grande affetto».

«Insomma, tutto un mondo che si andava sgretolando per l’ennesima volta, con quel pizzico di risentimento in più, dovuto alla non accettazione reciproca e al rifiuto di volersi capire profondamente. I fantasmi di mio padre e di mio nonno che bussavano alla porta. Quello di mia nonna che faceva capolino. La pandemia devastante, il mio bisnonno, e il terrore di perdere tutto di nuovo, di rimanere solo. L’isolamento forzato, la follia, la scomposta infelicità dei mesi passati a provare a curare tutto questo fardello, in maniera a tratti delirante e adolescenziale. Un’ultima spiaggia».

«E poi: la scoperta di un nuovo modo di stare al mondo, più felice e più pieno, favorito da cinque anni riusciti di analisi personale; un nuovo impianto stereo, tanto desiderato, e l’amore per me stesso, finalmente la cura e la capacità reale di stare in piedi da solo. Allora, soltanto a quel punto, l’incontro. Una volta fatta piazza pulita da tutto. La possibilità concreta».

«È così che Federica, che è entrata nella mia vita prepotentemente, non fa parte della storia di queste canzoni, ma è la persona, il rapporto che mi ha permesso di affrontarne la lunga e dolorosa messa a terra. Senza di lei, credo che parte di tutto quanto abbiamo composto e realizzato non esisterebbe nemmeno, o avrebbe acquisito tutt’altro peso e forma. L’equilibrio e la forza che traspaiono nel disco sono quello che lei ed Emma hanno apportato alla mia vita. Nulla si sarebbe manifestato, senza di loro, allo stesso modo. Poco ma sicuro. Nemmeno in concerto oggi».

«La gestazione dei brani è stata molto complessa. Ho perfino dovuto smantellare il trio, lungo il percorso, quello col quale abbiamo girato l’Italia, per poi riuscire a registrare il primo live ufficiale della mia carriera. Quegli stessi musicisti su cui avevamo contato tanto e investito, per registrare le basi del nuovo lavoro e innestare tutto il resto. Tutto sarebbe potuto crollare e portare a un disastro, ma in me la visione è sempre stata lucida e chiara. Non ho mai dubitato un attimo della fattibilità e anzi, a un certo punto ho anche iniziato a sperimentare una nuova via, per completare il percorso: allargare il mio “cerchio magico” e chiedere direttamente ad alcune persone esterne (dei professionisti), che cosa ne pensassero del disco. Ho messo a tacere le loro paure che fosse tutto troppo lungo e troppo pretenzioso. E ho lavorato sul come poter gestire tutta quella grazia. E ci siamo riusciti. Non sono mai stato tanto felice e orgoglioso di un mio successo, perché tale lo ritengo in verità. Ed è bello poterlo affermare e condividere, poterlo leggere e sentirlo apprezzato».

La ricchezza del disco in termini di suoni, arrangiamenti e stili musicali è impressionante. Certamente il contributo del violoncellista Stefano Cabrera (GnuQuartet, Gnus Cello) è stato importante, così come è tanto riuscita quanto variegata la produzione di Raffaele Abbate; bravissimi i musicisti consolidati che già suonarono in trio con Saporiti in tempi recenti (Alberto Turra alle chitarre e Lucio Sagone alla batteria).

Volendo cercare dei riferimenti, pensate pure a quanto di meglio offre il cantautorato alternativo in Italia, da Benvegnù alla scuola milanese di Afterhours e La Crus; ma certo la creatività e l’espandibilità del disco in mille direzioni diverse è tutto merito di Saporiti.

«Il disco è già nato sotto la felice intuizione di due capitoli distinti (chiamati Lo sfratto e La zattera, ndr), che dovevano differenziarsi per la tipologia degli strumenti e dei musicisti coinvolti, in fase di arrangiamento. Il tutto concertato in totale accordo con Raffaele, fin dall’inizio. Un capitolo doveva sfruttare l’esperienza fatta col trio di Acini live e cogliere la sua energia “live” per poi essere implementato con un lavoro sperimentale, elettronico e tendente al free jazz, mentre il secondo avrebbe dovuto appoggiarsi su delle orchestrazioni più strutturate, scritte e pensate, e principalmente legate al mondo degli archi e della composizione classica». 

«Quello che poi è capitato è che nel momento esatto in cui la suddivisione è stata pronta e messa a terra, io e Raffaele ci siamo trovati a mescolare tutte le carte in tavola, contaminando il lavoro con tutto quello che ci veniva in mente in maniera spontanea, brano dopo brano. In questo, i mesi passati ad ascoltare musica sperimentale e contemporanea da solo, rifiutando i cantautori per anni, mi hanno fatto molto bene. Hanno arricchito e mutato la mia tavolozza, che a quel punto era lì pronta e spalancata davanti ai miei occhi, senza che ne fossi davvero stato consapevole, fino a quando le domande non me lo hanno dimostrato nei fatti. Ho persino avuto una fase in cui avrei voluto eliminare la mia chitarra acustica dalla scena. E soltanto Raffaele, con la sua volontà di conservare e tutelare la mia autorialità, ha potuto salvarci dalla mia brama di cambiamento».

«Lavorare coi synth e in studio poi, a produzione quasi terminata, è stato entusiasmante: un viaggio che rifarei ogni giorno della mia vita, se ne avessi l’opportunità, il tempo e il modo. Ho capito tante, tantissime cose, a questo giro. Per questo parlo anche di un nuovo inizio».

In realtà, un aspetto chiave per la riuscita dell’album è la voce di Paolo Saporiti, che ha un’espressività incredibile e la capacità di svariare su registri diversi mantenendo sempre un’intensità altissima. Che ne pensa l’autore di questa componente?

«Grazie, è un complimento enorme questo. Anche qui però bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare: ovvero il tempo e gli anni che passano, l’esperienza e l’idea di produzione stessa, la vita che evolve con te e con la tua musica, lungo tutto il percorso. I musicisti che mi attorniano sono tutti bravissimi da sempre ma altrettanto vale per il fonico che ha registrato e per chi ha prodotto e arrangiato tutto il lavoro artisticamente, Raffaele Abbate. Siamo tutti cresciuti immancabilmente e constatarlo è stato bello. Unico».

«Il lavoro di post-produzione, un elemento, una possibilità di cui chi non sa, neanche può immaginare quanto l’effetto possa essere devastante. Nel bene e nel male. Oggigiorno ancora più di prima, per le incredibili disponibilità tecniche esistenti».

«Diciamo che mai come per questo disco ho partecipato a questa fase entusiasmante e definitiva del processo. E mai come oggi ho potuto entrare nel merito delle questioni e capire. Ho chiesto, per la prima volta, di poter lavorare e seguire la voce come mai avevo fatto prima, riprendendo e riconducendo le interpretazioni più volte, fino all’ossessione, e l’ho ottenuto anche perché era un desiderio esplicito di Raffa il farmi cantare per la prima volta sui brani ultimati e non più soltanto sulla mia sola chitarra. Questo per poter esprimere colori diversi da quanto elaborato in solitudine. Il che ha voluto dire finalmente, per quanto mi riguarda, il poter concedere alla mia voce tutto quello che tutti gli altri hanno sempre fatto e richiesto per se stessi. Spazio e tempo, e cura».

«È un infinito apprendistato il mio. Fino a ieri ho sempre lavorato con un massimo di tre take su cui incidere. Considera che vi sono artisti di fama mondiale che si possono permettere di tagliare e incollare 80/90 take per dare vita a una sola traccia vocale. Vuol dire, in quel caso, poter lavorare su ogni singola vocale o consonante pronunciata. Non è questo quello che è successo, ma ti permette di capire quali e quanti siano gli aspetti da considerare, prima di poter parlare di un disco finito. La cura dei dettagli è massima. Ora come ora produrre un disco è possibile a livelli molto più alti anche per uno studio di dimensioni e fama relativa, basta avere gli strumenti e i software adatti e la consapevolezza di tutto quello che un mercato infinito e in continua espansione offre».

«Al resto ci pensano le mani e l’Arte, la consapevolezza di chi deve confezionare il pacchetto, che è sempre ritrattabile fino all’ultimo e con margini impensabili non più di cinque anni fa».

Le 20 canzoni del disco sono tutte meritevoli; trovarne una migliore è veramente impresa ardua. Anche in questo caso abbiamo preferito chiedere all’autore di indicare quali sono, a suo parere, i momenti topici dell’album.

«"Falce Nera" per me è rappresentativa del metodo di lavoro. È un brano che ha rischiato di rimanere fuori dalla tracklist. Complesso, dal testo difficile da chiudere. Una bambina che parla con la Natura e con la Morte, con me, e che sa che l’umanità se l’è proprio andata a cercare, l’Apocalisse. Ci ho messo mesi. Non ero mai soddisfatto, fino alla fine. E poi quel ritornello che non suonava mai come volevamo, fino al colpo di genio, togliere il tempo, annullare la scansione che avevo ipotizzato in principio e lasciarci guidare dai synth e dai colori, dalle voci che ci rincorrevano. Capolavoro di collaborazione e di connessione tra me e Raffaele».

«"L’autobomba": pezzo pazzesco, che fino all’ultimo non ho saputo come avrebbe suonato. Aspettavamo l‘ultimo intervento dei solisti dello GNU Quartet che non arrivava mai, e alla fine: eccolo il gioiello! Diciamo che la cosa più difficile per me è stata accettare i tempi altrui».

«Confrontarmi con le difficoltà della comunicazione a distanza, dovute alla pandemia, e alle tempistiche di un produttore artistico che ha le sue esigenze produttive pressanti e umane, diverse dalle mie. Questo è stato il nodo complesso da sciogliere, ma mi ha fatto maturare, tanto. E di questo ringrazio tutti per la pazienza».

«"Grandi verità" è invece il brano che fin dall’inizio ha funzionato benissimo e che ho immaginato da sempre come apertura del disco. Rappresentativo dell’insieme, anche lui ha subito un trattamento potenzialmente devastante, sul finale, con quella transizione elettronica a fare da collante tra lui e "Il bacio di Giuda" che avrebbe potuto rovinare il tutto; ma ci ho creduto e l’ho desiderata fino in fondo, e alla fine ha retto, anzi…».

«È uno di quei pezzi che ha il potere di fermare il tempo e parificare il dove, il come e il quando. Ovunque mi può proiettare in un altrove chiaro e mistico, anche senza riscaldamento. Pura magia.”

Paolo Saporiti ha già iniziato un piccolo tour per promuovere l’album (per le date già fissate consultare il sito paolosaporiti.it); per esigenze di budget si presenterà in duo, con Francesca Ruffilli al violoncello, musicista con la quale ha già collaborato in passato e che «mi costringe ad alzare costantemente il livello della mia performance».

Il consiglio è di cercare di assistere a un concerto e di sostenere per quanto possibile questo musicista straordinario.

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