La ricerca di Francesco Chiapperini

Intervista al clarinettista per il nuovo lavoro in trio, fra ispirazioni francesi e anni Sessanta

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Con un solido background formativo sulle spalle e una lucidità progettuale che a volte sembra intensamente complementare alla forza istintuale di alcuni percorsi improvvisativi che predilige, il clarinettista Francesco Chiapperini si sta rivelando come uno dei musicisti più interessanti della scena jazz/impro italiana.

Nato a Bari, ma ormai da anni “milanese”, si è fatto dapprima notare nei progetti legati alle figure di Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi, per poi esplorare con curiosa apertura le esperienze più varie, dando vita a progetti come l’Extemporary Vision Ensemble o gli Electric! Electric!

È da poco uscito per la Aut Records un disco a nome del suo trio InSight, con il pianoforte di Simone Quatrana e la chitarra di Simone Lobina, un lavoro di grande intensità, dove l’assenza di strumenti prettamente ritmici consente ai tre di esplorare sonorità dal carattere obliquo e stimolanti relazioni tra improvvisazione e scrittura.

L’occasione ideale per conoscere meglio Francesco Chiapperini attraverso le sue parole.

È da poco uscito il disco Paradigm Shift del tuo progetto InSight. Come nasce il disco di questo trio inusuale, con pianoforte e chitarra ma senza sezione ritmica?

«Paradigm Shift nasce dalla volontà di esplorare le sonorità che ho a disposizione con i clarinetti, strumenti che mi accompagnano da una vita, e a cui vorrei dedicare il “giusto spazio” nei progetti a mia firma, viste le potenzialità timbriche degli stessi. Provengo dal mondo classico (e da qui eredito la stretta comunione ed il dialogo con il pianoforte) e sono affascinato dal suono del legno che si fonde con quello elettrico della chitarra. Ma questo non basta. La ricerca inevitabile con chi suona gli stessi tuoi strumenti è, per me, fonte di ispirazione e confronto continuo. Ed è da questa ricerca che si fa spazio il nome e la musicalità del francese Louis Sclavis, a cui mi sento molto vicino, in termini di concezione musicale e di espressività clarinettistica. Il suo progetto in trio (Atlas Trio) è stato folgorante per me: ecco che dunque è nato InSight. È stata una vera e propria illuminazione. E, per ringraziare indirettamente tale “visione musicale”, ho dedicato un brano del disco (“Atlas”) proprio al trio di Sclavis».

Facciamo qualche passo indietro e torniamo alla tua formazione jazzistica. So che la figura di Daniele Cavallanti e una scena storia creativa milanese (quella dei Nexus, per intenderci) sono state un tuo importante riferimento. Cosa, in particolare, ha suggerito – e ancora suggerisce – quell’esperienza al tuo concetto di improvvisazione?

«Cavallanti, Tononi e Nexus sono state le prime realtà jazz con cui sono venuto in contatto quando mi sono trasferito a Milano. Conoscere Tiziano e Daniele, ascoltare i loro lavori in disco, e il poter rendersi conto di essere “in comunione” con il loro sentire e il loro jazz è stato ed è per me faro e guida del mio percorso. L’energia improvvisativa, il richiamo sciamanico di sonorità africane, la tensione delle loro linee tematiche sono i tre elementi che continuo a portare dentro di me e su cui lavoro, soprattutto quando ho la fortuna di condividere palchi e musica con loro. Sono attratto dagli anni e dalla musica che loro hanno vissuto appieno. Trovo che l’evoluzione del jazz che ha portato ad Ornette Coleman, Eric Dolphy, Charles Mingus, John Coltrane e a tutti i grandi esponenti degli anni Sessanta che hanno lasciato un solco nella storia della musica, sia uno dei punti più alti ed espressivi della creatività jazzistica».  

Nella tua musica le sonorità elettriche mi sembrano avere un ruolo molto peculiare, a maggior ragione dal momento che gli strumenti che suoni sono acustici. Ci racconti brevemente come funzionano questi mondi, quali sono le influenze che entrano nel tuo discorso compositivo e quali le altre suggestioni?

«Amo particolarmente il suono distorto o comunque “rielaborato” della chitarra elettrica: mi affascinano le diverse caratterizzazioni che possono risultare dall’applicazione di effetti e pedali. Mi piace il ruolo “naturalmente rock” che la chitarra elettrica può assumere. Di conseguenza, ritengo interessante il contrasto timbrico che si viene a creare con uno strumento acustico. Resto anche affascinato da come suoni provenienti da strumenti così differenti possano amalgamarsi e fondersi in maniera tale da poterli percepire come un unico suono e allo stesso tempo chiaramente distinti. Non ho particolari influenze elettriche in termini di ascolto o di esperienze, ho solo la “pancia emozionale” che vibra e che mi spinge in questa direzione, che però, mi piace ricordare, non è l’unica che concepisco».

Sia Simone Lobina che Simone Quatrana, tuoi partner nel disco, fanno parte con te del Novara Jazz Collective, collettivo a geometria variabile di musicisti di area lombardo/piemontese che ha trovato nel festival un importante occasione progettuale. Raccontaci qualcosa di questa avventura del Collective.

«Il Novara Jazz Collective è la sintesi di due mondi nata su impulso di Corrado Beldì, presidente di NovaraJazz: mi riferisco al mondo strumentistico di noi musicisti milanesi che facciamo parte del Collettivo e quello organizzativo del Festival, che vede in noi uno “zoccolo duro” in termini di presenza territoriale, proposte musicali e – soprattutto – musicisti su cui poter far leva nell’atto di diffusione di un linguaggio jazzistico moderno sul territorio. Il NovaraJazz Collective nasce infatti come supporto a NovaraJazz per laboratori, didattica, workshop nazionali ed internazionali curati e tenuti da musicisti italiani e/o stranieri».

Nel disco, al di là del riferimento “linguistico” evidente dei primi due temi (“France mon amour” e “Promenade”), trovo più di qualche familiarità con la scena francese – pensavo a Louis Sclavis prima di intervistarti e ne hai parlato subito, ad esempio. È l’occasione per chiederti qualcosa sul tuo rapporto con la scena europea.

«Sì, Sclavis è il faro dei miei ascolti europei in ambito clarinettistico. Seguo anche musicisti come Michel Portal e John Surman, anche se di quest’ultimo preferisco i primi lavori. Più in generale, se penso alla scena jazzistica europea, l’ascolto “pulito” di questo tipo di approccio, spesso la volontà nello scomporre il ritmo e nel rendere tutto più complicato, perché altrimenti non è bello, o, altre volte, la troppa commistione con la musica classica cameristica come sonorità a cui ci si accosta e magari da cui non si è passati attraverso un percorso strumentistico, non mi rendono un gran filoeuropeista (sempre musicalmente parlando, s’intenda!). Il mio sentire è orientato verso sonorità più “rough”, appartenenti ad un bagaglio storico ben preciso che trova le sue radici nella storia del jazz degli anni sessanta e settanta. Mi sento più vicino ad un periodo storico che ad una nazione. Si tratta solo di ricerca di emozioni e di connotati che caratterizzano un certo tipo di musicalità». 

Quando ho avuto modo di conoscerti e frequentarti, la scorsa primavera per un progetto con Rob Mazurek, una cosa che mi ha colpito molto è stata non tanto sapere che oltre a quello di musicista hai anche un altro lavoro che non c’entra con la musica (cosa che purtroppo a volte è una necessità), ma la tua capacità di gestire questi due mondi molto diversi con la medesima eccellenza e professionalità. Non voglio entrare magari in ambiti che è giusto restino separati, ma ti chiedo qualche riflessione, se ti va, su questo…

«A oggi molti musicisti che frequento e che conosco lavorano come insegnanti: io ho scelto di intraprendere un percorso accademico in ambito economico perché mi piacciono i numeri e lo studio degli stessi e della loro applicazione. Penso che non ci sia differenza tra le due realtà, si parla solamente di due lavori necessari per poter vivere e poter dedicarsi, con il poco tempo che resta, alla musica. La società in cui viviamo non contempla la professione del musicista in senso stretto e non ci resta che convivere con tale assunto, anche se sovraimposto. Si tratta solamente di gestire un equilibrio che a volte ruba tempo (vorrei poter studiare molto di più di quanto non faccia), ma che permette di poter affrontare la propria vita musicale in maniera più serena. Il problema alla base di tutto questo resta a mio modo di vedere il mancato riconoscimento della professione da parte delle istituzioni e la mancanza di soldi per stipendiare l’attività stessa dei musicisti».  

Aprendo la tua pagina web si è colpiti dalla varietà di progetti attivi a cui partecipi (e che guidi): sinteticamente come stanno procedendo le varie band come NoPair, Marcos Quartet, Extemporary Vision Ensemble, Electric! Electric! e Nido Workshop? Quali le esigenze cui rispondono nel tuo quadro artistico complessivo?

«Ogni progetto è figlio del percorso musicale che ho intrapreso e che sto percorrendo. Gli impasti sonori che derivano da tali progetti rispecchiano gli ascolti che mi accompagnano e la sperimentazione in termini di numero di strumenti (e strumentisti) coinvolti, ne è diretta conseguenza. È una sorta di processo che può essere assimilato a quello alla base del funzionamento dei neuroni specchio. Assimilo lo stimolo musicale che mi proviene dall’esterno e cerco di interiorizzarlo facendolo mio per poi riproporlo in termini di composizioni e di visioni personali».

Quali i tuoi prossimi progetti, dunque? «Attualmente ne ho in mente tre differenti, ma mi sto prendendo del tempo per poterli affinare meglio. Il primo sarà ancora opera dell’Extemporary Vision Ensemble, in un’altra nuova formazione (sempre però “pescando” dai musicisti che hanno a oggi inciso i due lavori precedenti, anche se uno deve ancora veder la luce in termini di uscita discografica...) e dedicato alla guerra raccontata attraverso i canti alpini. Sto contemporaneamente lavorando su composizioni dedicate ad Out to Lunch e ad Eric Dolphy in generale, altra colonna portante che rispecchia la mia visione musicale. È un lavoro difficile e a cui tengo particolarmente. Infine, ho in mente di esplorare la formazione del trio in un’accezione più “orientale”, ma non vorrei sbilanciarmi troppo, anche perché il tempo, forse, potrà far cambiare alcuni dettagli progettuali».  

Cosa gira nell’i-Pod/lettore/piatto di Francesco Chiapperini in queste settimane?

«Stamattina ascoltavo Brown Rice di Don Cherry. È un periodo in cui le mie orecchie hanno bisogno di sonorità potenti e quindi spazio dai due dischi di Bitches Brew , ai lavori in ottetto di David Murray passando anche per John Zorn & Electric Masada e il Birds of Fire della Mahnavishnu Orchestra».

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