Junior Cally, femminicidio e moralisti a Sanremo

Il sessismo nelle canzoni e la polemica su Junior Cally al Festival di Sanremo, tra benpensanti e censura

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Junior Cally
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Non sarebbe Festival di Sanremo senza una bella polemica moralista: ed ecco allora, dopo il sessismo di Amadeus, le canzoni di Junior Cally, che oltre che sessiste celebrerebbero pure il femminicidio. Ci risiamo, un’altra bella ondata di panico morale. E dire che avevamo quasi normalizzato la trap, che aveva scosso anime candide a destra e a sinistra e che ormai sembrava già innocua come un gattino arruffato.

Non si tratta, specifico, del brano di Junior Cally in gara a Sanremo (che sarebbe, dalle anticipazioni, il classico brano “politico” qualunquista che ciclicamente ricompare al Festival), ma di alcuni vecchi brani del rapper romano, in particolare “Strega” (del 2017) inciterebbe a stupro e, appunto femminicidio.

Il che rende la polemica sulla censura particolarmente interessante, perché non riguarda se un testo problematico e discutibile debba o meno andare a Sanremo, ovvero nel prime time televisivo, ma se un musicista che in passato ha scritto e cantato testi e discutibili abbia diritto o meno di parteciparvi.

Le vibranti proteste da parte di persone che fino a cinque minuti prima non avevamo mai sentito parlare di Junior Cally (e che di certo non frequentano il rap) non si sono fatte attendere: «Scelte come quella di Junior Cally sono eticamente inaccettabili per la stragrande maggioranza degli italiani», ha detto il presidente della Rai Marcello Foa, e gentile da parte sua aver inserito quello «stragrande». «Un esempio assolutamente sbagliato da dare ai nostri figli», hanno dichiarato Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari della Lega, «che vanno ad ascoltare altre canzoni di questo pseudo artista e magari pensano che i loro contenuti siano del tutto normali». «Mi chiedo cosa ci faccia uno così in prima serata sul canale principe del servizio pubblico» ha detto invece Lucio Malan di Forza Italia: «Pare che venda molto sì. Anche la droga vende molto, ma non sembra il caso di propagandarla con i soldi del canone». Matteo Salvini ne ha approfittato per rivendicare i suoi successi di governo contro il femminicidio. Ma anche da sinistra (o almeno dal PD) sono arrivati appelli all’esclusione di Junior Cally da Sanremo, mescolando posizioni più ragionate (ad esempio, da parte di chi si occupa di parità di genere) con il solito salto sul carro.

Insomma, la solita storia. Ma il tema è importante, e sull’onda della polemica, e dell’indubbio fastidio che molti di noi possono provare di fronte ad alcune canzoni (comprese quelle di Junior Cally), è una buona occasione per provare a fare il punto, e riflettere su un tema serio come quello del sessismo e della violenza di genere in musica.

Sono conscio della mia posizione di maschio bianco eterosessuale, e ne riconosco i limiti. Ma vorrei provare a vedere la questione dal punto di vista del musicologo, di chi per lavoro analizza e cerca di comprendere oggetti complessi quali sono le canzoni nel loro contesto culturale.

La canzone incriminata

La canzone che più ritorna nella polemica contro Junior Cally è “Strega”, del 2017, in particolare in riferimento ai versi:

Lei si chiama Gioia, beve poi ingoia /  Balla mezza nuda, dopo te la dà / Si chiama Gioia, perché fa la troia, sì, per la gioia di mamma e papà / Questa, frate’, non sa cosa dice. Porca troia, quanto cazzo chiacchera? / L'ho ammazzata, le ho strappato la borsa. C'ho rivestito la maschera.

Siamo d’accordo che non si tratta di un testo particolarmente edificante. Tuttavia, come ogni testo, va letto nel suo contesto. Che è quello di un brano rap in cui il protagonista (l’emittente del messaggio, l’io narrante della canzone) afferma con violenza la sua superiorità nei confronti dei suoi rivali (fuori di metafora, la scena rap italiana) spingendosi fino alla sopraffazione fisica definitiva («Sì li ho uccisi tutti quanti io / sì li ho uccisi signor maresciallo»); e che contiene, nella strofa seguente, un’affermazione di potenza sessuale e una fantasia omicida.

Aggiungo che nel video Junior Cally si aggira in un sottopasso con una mazza da baseball, in mezzo a dei tamarri morti (che evidentemente si fingono morti: non c’è una goccia di sangue e il budget del video non sembra altissimo). E che fa tutto questo indossando una maschera antigas con una fantasia Louis Vuitton.

Junior Cally Sanremo femminicidio Strega

Possiamo disquisire che sia di cattivo gusto. Non c’è dubbio che lo sia. “Strega”, come molti altri brani di un certo rap, è progettato per essere estremo e perturbante, ed è così che funziona come testo (semiotico). Però, se ci mettiamo a fare il processo al cattivo gusto, facciamo fuori mezze canzoni di Sanremo. Qui siamo dentro un immaginario che riprende esplicitamente certi film, certi videogiochi, e che – a sua volta – è ben calato dentro l’immaginario del rap internazionale. Che – sorpresa – è violento e controverso.

Repeat with me: «la canzone è fiction».

Ora, non ci vuole una laurea in rappologia applicata per capire che si tratta di fiction (lo ripeto ancora una volta: il personaggio Junior Cally ha una mazza da baseball in mano e indossa una maschera antigas con una fantasia Louis Vuitton). E, in effetti, così si è “difeso” Junior Cally attraverso il suo manager: «Raccontare la realtà attraverso la fiction è la grammatica del rap. E non solo del rap: la storia della musica ha tantissimi esempi di racconto del mondo attraverso immagini esplicite, esagerate e spesso allegoriche». Semplice, no? 

Non ci vuole una laurea in rappologia applicata per capire che si tratta di fiction.

Poi, se il Junior Cally uomo (ovvero Antonio Signore) sia una brava persona, sia misogino, sessista, vegetariano, voti PD o Partito Sardo d’Azione e pensi o meno quello che canta è una questione che esula dalla riflessione – ma che dovrebbe in generale esulare dalla fruizione dell’arte.

La totalità delle polemiche che riguardano il presunto potere delle canzoni di corrompere la nostra meglio gioventù si basa su un particolare potere delle stesse canzoni. Che è quello di sembrare vere, di essere interpretate dall’ascoltatore come se dovesse necessariamente esserci un accordo di verità tra chi canta e quello che canta. È un legame che in Italia è storicamente forte anche per il particolare ruolo che nel nostro paese ha giocato la figura del cantautore, ma che riguarda in generale la musica pop, soprattutto da un certo momento in poi. Il cinema e la letteratura, ad esempio, sembrano funzionare in modo leggermente diverso: nessuno ritiene – sulla base della loro arte – che Tarantino possa replicare le azioni violente dei suoi personaggi, o che Nabokov andasse in giro a scoparsi le ragazzine. Possono essere criticati per la loro moralità, ma secondo logiche differenti da quelle che riguardano i musicisti pop. 

Canzoni da censurare

Solo negli ultimi anni, possiamo ricordare le polemiche contro il metal (ricordate Marylin Manson in Bowling a Columbine?), contro i neomelodici napoletani, contro la trap… E a ogni ondata, la soluzione proposta da diverse categorie di critici (che potremmo ricondurre alla categoria di “benpensanti”) è stata quella della censura. Come per il razzismo, i discorsi sulla censura morale in musica funzionano secondo la logica del «io sono per la libertà di espressione ma…». Ecco, se c’è un “ma”, non sei veramente per la libertà di espressione.

Come per il razzismo, i discorsi sulla censura morale in musica funzionano secondo la logica del «io sono per la libertà di espressione ma…».

Chiedere di censurare un oggetto di finzione perché veicola contenuti antisociali, scomodi o che ci disgustano è profondamente ipocrita. Soprattutto se consideriamo come tutta la storia della popular music (e ci metto dentro anche la grande opera lirica) sia costellata di canzoni e cantanti che esaltano o fanno l’apologia di stili di vita e pratiche deprecabili. 

Perché – sorpresa sorpresa! – alla gente piace intrattenersi con vicende trasgressive e che solleticano le fantasie più nascoste. Era così quando i borghesi parigini affollavano i cabaret di Aristide Bruant per sentire piccanti storie di prostitute e malavitosi. Era così con i canti dei fuorilegge americani, che rapinavano e stupravano – e a cui Roberto Leydi dedicò un libretto, alla fine degli anni cinquanta, che ispirò buona parte del folk revival e della canzone “intellettuale” italiana del decennio successivo. Era così con il blues, è così con i neomelodici napoletani che raccontano storie di latitanza. È così con il rap e la trap. Per tutti gli altri, c'è sempre il Christian rock.

Femminicidio e canzone

Se vogliamo limitarci al tema del femminicidio, così a memoria, possiamo ricordare Joe, l’amico di Jimi Hendrix che uccise la sua donna perché se la faceva con un altro uomo («Yes, I did, I shot her»). Oppure il pericoloso antisociale Neil Young, che ammazzò la sua ragazza giù al fiume («Down by the river / I shot my baby»). O il perfido gallese Tom Jones e la sua Delilah. O Brassens e la sua Marinette, Edoardo De Angelis e Lella. O quel gentiluomo di Sergio Endrigo.

Se passate da via Broletto
Al numero 34
Potete anche gridare, fare quello che vi pare
L'amore mio non si sveglierà
Ora dorme e sul suo bel viso
C'è l'ombra di un sorriso
Ma proprio sotto il cuore
C'è un forellino rosso
Rosso come un fiore

Sono stato io
Mi perdoni Iddio
Ma sono un gentiluomo
E a nessuno dirò il perché.

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di racconti di finzione, oppure paradossali (è il caso di “Marinette” di Brassens). E allora perché le canzoni di Junior Cally non rientrano in questa categoria? 

Qualcuno potrebbe affermare che tra i cliché del blues, e delle musiche di origine afroamericana in generale, questo genere di temi è molto comune e ormai del tutto depotenziato. E il rap non fa parte di queste musiche? 

Se ci piace essere provocati da canzoni provocatorie – e ci piace da sempre, lo abbiamo visto – Junior Cally e gli altri rapper non stanno forse solo alzando l’asticella? 

Del cattivo gusto ho già detto. Qualcuno potrebbe addurre l’obiezione che il linguaggio di Junior Cally è molto più volgare ed esplicito. E la trasgressione (anche linguistica) non è forse in funzione della società in cui agisce, e del pubblico a cui si rivolge? Se ci piace essere provocati da canzoni provocatorie – e ci piace da sempre, lo abbiamo visto – Junior Cally e gli altri rapper non stanno forse solo alzando l’asticella? 

Non sarà che c’è un pregiudizio di classe?

Oppure, non sarà che c’è un pregiudizio di classe? Che certi contenuti sono problematici – per alcuni – perché vengono veicolati con linguaggi che non sono loro propri, e che appartengono a generi deprecati perché espressione di una alterità sociale e generazionale? 

La musica brutta è sempre quella che ascoltano gli altri.

La musica brutta, si sa, è sempre quella che ascoltano gli altri. La canzone d’autore e il rock classico possono parlare di femminicidio perché lo fanno in maniera fine e raffinata, dunque sono arte. Il rap no, ed è interessante notare come in molte critiche al brano di Junior Cally, le parole “artista” e “arte” siano spesso messe tra virgolette. Come a chiarire – ce ne fosse bisogno – che in questo caso si parla di etica e non di estetica, perché Cally non è un “vero artista”. Dunque, quello che fa non è arte, non è fiction, è apologia di reato. 

I tempi sono cambiati

I più attenti potrebbero obiettare che tutti gli esempi precedenti sono canzoni che riportano e consolidano un punto di vista maschile, come buona parte della musica (non solo pop) fa, e che esiste un problema di squilibrio di genere che io – in quanto maschio – non faccio che confermare e rafforzare. È vero, incasso in anticipo la critica, e dichiaro la mia posizione. È un problema culturale di ampio respiro, che non si può liquidare in poche battute. 

Vorrei però fare notare che brani come “Strega” funzionano, per il loro pubblico, proprio perché si pongono esplicitamente contro la morale corrente e il socialmente accettabile (compresa la parità di genere), per molti versi rivelando – attraverso la trasgressione di ciò che è morale (e legale), in questo caso l’omicidio e il femminicidio – il confine tra quello che si può dire e mostrare e quello che non si può.

È vero che i tempi sono cambiati, e che ciò che era accettabile una volta non deve esserlo oggi (e meno male). Tuttavia, proprio perché non siamo più nell’epoca delle crinoline e del delitto d’onore, anche il dibattito dovrebbe essersi evoluto oltre questo moralismo spicciolo e retrogrado.

Perché nessuno pensa ai bambini?

Perché quello che emerge di questa polemichetta sanremese è anche una banalizzazione che mette sullo stesso piano un direttore artistico in una posizione di potere (Amadeus) che avalla pubblicamente uno squilibrio di genere che dovrebbe essere sovvertito, con un rapper che fa canzoni che – per quanto discutibili possano essere – sono oggetti di finzione. 

Che cosa è più pericoloso «per i bambini», visto che in molti si preoccupano della cosa? Il primo rivela un meccanismo subdolo e che agisce in maniera implicita e “normale” nella società. Il secondo è offensivo e perturbante – sì – ma paradossale, estremo, grottesco.

Se l’ansia è che i bambini e le bambine vengano in contatto con certi oggetti (che ovviamente devono essere “per bambini accompagnati”), allora impariamo a disinnescare questi oggetti con l’arma della critica e della riflessione. A far capire che il mondo che rispecchiano è un mondo squilibrato e sbagliato (e in questo, Endrigo vale Junior Cally), ma che – come ogni artefatto artistico – servono a comprenderlo, quel mondo. Anche quando non ci piacciono.

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