Il cinema va all'Opera

A Francoforte un festival musicale con film in bianco e nero degli Anni Venti

Articolo
classica

“Le arti fiorirono come un prato prima della falciatura. Donde la grazia tragico-geniale che fu propria di quest’epoca.”

Così lo scrittore Carl Zuckmayer descriveva la vitale frenesia che fu propria del secondo, rapidissimo decennio del secolo breve. Per l’Europa uscita dal bagno di sangue della prima guerra mondiale fu una convulsa esplosione di energia creativa alla quale rispose, con un ritrovato orgoglio, la potenza amica sull’altra sponda dell’Atlantico. Poco meno di un quindicennio e poi tutto precipitò di nuovo nell’abisso. A quello straordinario decennio l’Alte Oper di Francoforte ha dedicato la più recente delle isole tematiche nella sua ricca programmazione generalista. Un’escursione in tre tappe, come tre furono i principali poli propulsori di quel movimento: Berlino, Parigi e New York.

Da New York parte la prima tappa con un omaggio a George Gershwin e alla celebre Rhapsody in Blue con Khatia Buniatishvili al pianoforte. Esecuzione piuttosto concitata, per non dire tirata via, accompagnata dalla Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino diretta da Frank Strobel, che ha dato l’impressione di guardare con più interesse agli altri due pezzi in programma: la Sinfonia n. 2 di Sergej Prokof’ev, pezzo “di ferro e acciaio” degli anni parigini, e la musica di accompagnamento di Edmund Meisel per Berlin. Die Sinfonie der Großstadt di Walter Ruttmann.

Di esecuzione piuttosto rara, la Sinfonia di Prokof’ev, insolitamente strutturata in due movimenti (Allegro ben articolato e Tema con variazioni), porta ben impressa la cifra del compositore nella robusta nervatura dinamica e nello scintillio di una scrittura orchestrale che risplende soprattutto nel primo movimento, autentico “showcase” per le ottime qualità del complesso berlinese, lanciato a briglia fin troppo sciolta dal direttore Strobel. Non molto lontano si colloca l’universo sonoro di Edmund Meisel per il film di Walter Ruttmann, che chiudeva la serata con una certo senso di simmetria: difficile ormai separare il pezzo di Gershwin dall’immagine di Manhattan, dopo la struggente dichiarazione d’amore del film di Woody Allen.

Girato nel 1927 il film di Ruttmann è concepito come un vero e proprio ritratto in cinque atti di una metropoli, Berlino nella fattispecie, con un’estetica non lontana da un certo cinema sovietico dell’epoca. A metà strada fra il documentario antropologico e il film sceneggiato, la pellicola racconta le 24 ore della vita della città, dal treno operaio che arriva all’alba nella Anhalter Bahnof (scomparsa sotto le bombe della seconda guerra mondiale) e l’ingresso nelle fabbriche, il risveglio della città (bellissima allora) con la sua miriade di microstorie, la mistica sospensione per il pranzo e poi via fino al crepuscolo e infine la rinascita notturna nei varietà e nella sale da ballo. Operai e grandi borghesi, ricchi e miserabili: tempi davvero duri per molti, anche se la depressione sarebbe arrivata di lì a poco. La musica segue le immagini con lo stesso passo irresistibile del film, come il treno che corre veloce sui binari delle immagini di apertura, ed è composita come le situazioni che scorrono sullo schermo e imbevuta di quello spirito avanguardista del periodo. All’Alte Oper si ripeteva la serata del 2007, quando le versioni ricostruite e restaurate di film e partitura furono presentate con successo al Friedrichpalast di Berlino, dalla stessa orchestra e dallo stesso direttore, un successo che anche a Francoforte si rinnovava, complice la felice alchimia di immagini e musica.

“Berlin. Berlin. Die Sinfonie der Großstadt” di Walter Ruttmann (Atto I)

Meno spettacolare ma altrettanto stimolante la seconda tappa nella più raccolta Mozart Saal, officiata dall’Ensemble Modern, come spesso in “geometrie variabili”, guidato per l’occasione da David Philip Hefti. Il programma entrava immediatamente nel tema con le atmosfere da cabaret berlinese della “Suite di danze dagli anni ’20” di Stefan Wolpe in un’orchestrazione recente di Geert van Keulen. Wolpe è meno noto dei compositori del Novembergruppe ma più longevo, specie di Kurt Weill (e come lui ebreo e comunista), del cui il pezzo richiama un certo gusto grottesco. Da Berlino a New York per gli sperimentalismi estremi di Edgar Varèse, di cui veniva presentato Intégrales, composizione del 1927 di grande libertà formale e espressiva per undici fiati e quattro percussioni.

D’obbligo il nome di Kurt Weill, di cui però l’Ensemble Modern riproponeva non già i grandi classici “politici” del sodalizio con Brecht, ma la non notissima “Suite panaméenne” dalla più tarda “Marie Galante”, musical parigino del 1934 non fortunatissimo e certamente meno graffiante dei lavori berlinesi nonostante l’alta fattura (ma solo il foxtrot finale lascia un segno). Nella seconda parte ancora il Novembergruppe al centro del programma ma qualche decennio dopo: riecco Wolpe per il Piece in three parts del 1962 in cui il dialogo fra pianoforte e i sedici strumenti solisti viene sviluppato secondo una logica seriale priva di freschezza di ispirazione, e Hanns Eisler per la Kammer-Symphonie op. 61 del 1940, composta come accompagnamento per il film naturalistico White Flood di Osgood Field finanziato dalla Fondazione Rockfeller, nella quale affiorano tracce tardive di espressionismo nella rigorosa disposizione dodecafonica. Il cinema non mancava nemmeno in questo caso con il fuori programma del cortometraggio Studie Nr. 7, coreografia di forme astratte sulle note della Danza ungherese n. 5 di Johannes Brahms, diretto nel 1930 da quell’Oskar Fischinger che un decennio più tardi riproponeva la stessa formula ma con mezzi maggiori per la Toccata e fuga in re minore bachiana in Fantasia di Walt Disney.

Oskar Fischinger “Toccata e fuga in re minore” (da Fantasia)

Terza e ultima tappa in grande stile per la “lunga notte” organizzata attorno a due percorsi paralleli: “Musica” e “Film”. Preambolo filmico di lusso era la proiezione del gioiello Le avvenure del Principe Achmed di Lotte Reiniger del 1926, a oggi il più antico film d’animazione sopravvissuto, anche se frutto di un paziente lavoro di ricostruzione concluso una quindicina di anni fa a cura del Deutsches Filmmuseum di Francoforte in collaborazione con il britannico BFI National Archive essendo andato perduto il negativo originale. Concepito già alla nascita come collaborazione fra la Reiniger e il compositore Wolfgang Zeller, il fiabesco ed elaboratissimo plot, chiaramente ispirato alle Mille e una notte con interpolazioni dalle mitologie nordiche (c’è anche una lotta “all’ultima metamorfosi animale” fra il perfido mago africano e la strega della montagna di fiamme che ricorda, a ruoli invertiti, quella fra Merlino e Maga Magò nella disneyana Spada nella roccia), i seducenti esotismi della partitura venivano fatti risplendere nella Grande Sala dell’Alte Oper dai bravi strumentisti del Collegium Novum di Zurigo sotto la guida sensibile di Johannes Kalitzke.

Spazio quindi alla musica ancora con la Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino diretta anche nell’ultima serata da Frank Strobel, che seguiva una formula simile alla prima serata con il Gershwin del classicone Un americano a Parigi (ossia New York meets Paris), continuava con l’insolito e precoce Olivier Messiaen de Les offrandes oubliées (ossia anche Parigi ha, o almeno aveva, un’anima) e chiudeva con la furibonda energia della “Suite n. 3” di Hanns Eisler, altro pezzo legato al cinema, in questo caso l’epica proletaria di Kuhle Wampe diretto da Slatan Dudow nel durissimo 1933 con la sceneggiatura di Bertolt Brecht e Ernst Ottwald (strepitoso sopattutto il gran finale della “Ricerca disperata di lavoro”: strani tempi!). In parallelo, la Mozart Saal offriva La femme 100 têtes di Georges Antheil, pezzo per pianoforte ispirato ai collage di Paul Klee. Il percorso “musica” proseguiva con un omaggio a Louis “Satchmo” Armstrong della hr Big Band diretta da Jim McNeely e con rarità concertistiche per sax e orchestra di Kurt Weill e Edmund von Borck con la Rundfunk-Sinfonieorchester e il sassofonista Lutz Koppetsch.

Trailer di Le avventure del Principe Achmed di Lotte Reiniger

Se il grosso del pubblico preferiva il percorso musicale, le piccole gemme cinematografiche condite di accompagnamento dal vivo nella Mozart Saal conquistavano comunque un buon numero di spettatori, che partecipavano con risate e applausi “a scena aperta” particolarmente ai tre irresistibili cortometraggi in bianco e nero targati Walt Disney. Davvero preistorici rispetto al Disney dell’immaginario collettivo, i tre corti erano realizzati con una tecnica interessante fra disegni animati, con protagonista un prototipo di gatto Felix, e il personaggio reale della bimba Alice, in un’epoca in cui il digitale non era probabilmente nemmeno nell’orizzonte delle cose possibili. Tre avventure di umorismo surreale – assalto alla diligenza nel Far West, storia galante con rivale e pompieri in azione in un improbabile hotel in fiamme – con il commento musicale “di genere” (ma intonato allo spirito scanzonato dei cartoons) di Paul Dessau, eseguito ancora dal Collegium Novum diretto da Kalitzke. Ossia, non tutti gli avanguardisti guardavano con sussiego alle novità dal Nuovo Mondo.

E ancora di Paul Dessau il commento all’altro film in programma, L'horloge magique ou La petite fille qui voulait être princesse (presentato in due parti “Die Wunderuhr” e “Der Zauberwald” nella versione tedesca). Il film fu diretto nel 1928 da Ladislas Starevich, polacco, di formazione cinematografica russa e dalla Russia rivoluzionaria in fuga verso Parigi, dove fece rivivere i resti dei vecchi studi di Georges Méliès e anche il suo gusto surrealista. L'horloge magique è girato in stop-motion con un riuscito melange di marionette e personaggi reali e racconta della giovane Yolande, la figlia dell’orologiaio più matto dai tempi di Lewis Carrol, che sogna di farsi impalmare dal cavaliere Bertrand, uno dei miniautomi dell’orologio costruito dal padre. Scappato al cavaliere nero (che poi è la morte con corazza medievale) grazie all’intervento in extremis di Yolande che (letteralmente) ferma il tempo, coronerà il sogno (letteralmente) di Yolande in una natura selvaggia e piena di insidie. Anche qui il commento di Dessau è poco più che funzionale all’articolata vicenda ma fa fatica a raggiungere l’incanto di altri orologiai musicali della storia della musica.

Entr’acte di René Clair (musica di Erik Satie)

Il finale è nella Sala grande con la Rundfunk-Sinfonieorchester alle prese con grandi nomi di ambiente parigino: Entr’acte, capolavoro dadaista di René Clair primissima maniera (il film è del 1924) con il commento sonoro di Erik Satie, autore anche delle tassative indicazioni direttoriali, e Un chien andalou firmato da Luis Buñuel con la complicità creativa di Salvador Dalí e il commento musicale “postumo” di Mauricio Kagel, che nel 1982 sostituiva la cosiddetta “vérsion tango” decisa dallo stesso Buñuel utilizzando anche frammenti del Tristan und Isolde. Per l’occasione Kagel rinunciò alla pirotecnica vena inventiva producendo una partitura priva di guizzi ma generosa di latrati canini, come l’onesto lavoro di un artigiano al servizio di due padri nobili del surrealismo.

E dopo tanta solare vitalità calò la tenebra.

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