I Righeira e quell'estate del 1983

Fabio De Luca racconta in un libro i Righeira e l'anno del pop italiano anni ottanta

Righeira
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Ci sono molti modi di scrivere un libro a carattere musicale. Si può pubblicare una bella biografia di un nome di successo, magari i Måneskin, riuscendo anche a piazzare qualche frase adulatoria tra una foto e l’altra. Si può approntare un saggio completissimo sulla scena dell’elettroacustica post nucleare della Scandinavia del Nord, sperando di riuscire a venderla ai 19 fan del genere che ci sono in Italia, senza comunque rientrare dalle spese. Si può mettere a punto una nuova traduzione dei testi di Bruce Springsteen, cambiando giusto un paio di parole a caso dalla versione dell’anno prima. Eccetera.

Fabio De Luca, un nome che i lettori della stampa specializzata conoscono da più di trent’anni, e che oltre a essere uno dei giornalisti più preparati d’Italia è anche un ottimo dj, ha avuto un’idea diversa. Ha individuato nel 1983 un momento cruciale per lo sviluppo socio-culturale dell’Italia, e ha scelto di raccontarlo attraverso la canzone che più di ogni altra rappresenta non solo quell’anno, ma l’intero decennio: “Vamos a la playa” dei Righeira. Scrivendo un libro bellissimo: Oh, oh, oh, oh, oh – I Righeira, la playa e l’estate 1983, pubblicato da Nottetempo.

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«Oddio, i Righeira!» è il commento che avranno fatto tutti i fan dell’indie, amanti di Cure-Smiths-R.E.M.-NewOrder (per citare solo i nomi che andavano per la maggiore in quel periodo), sconcertati dalla presa in carico di una band così spudoratamente mainstream.

In questo De Luca ha un approccio che si richiama a una relativamente recente tradizione del giornalismo britannico: partire da fenomeni musicali socialmente rilevanti per derivarne considerazioni che vanno ben oltre la superficie delle cose. Intendiamoci: si parla molto della canzone, si parla molto dei Righeira (con ampi stralci di intervista a Johnson; purtroppo Michael ha scelto strade diverse e non ci sono nel libro sue testimonianze personali), e si estende il discorso musicale a tutti i protagonisti diretti e indiretti di quel periodo.

E così si parte dai fratelli La Bionda, produttori e responsabili di molte soluzioni musicali di quel pezzo, per arrivare a Claudio Cecchetto via Ivan Cattaneo, Matia Bazar, Carlo Massarini, Gaznevada, Gruppo Italiano e mille altri. E questa è la parte che ci aiuta a capire come, in quella canzone che per mesi e mesi è la stata la nostra (nostra si fa per dire: il successo è stato planetario) colonna sonora quotidiana, c’era del genio. Quel tipo di genio che è predisposto a diventare universale, senza che quasi ce ne accorgiamo.

Ma in Oh, oh, oh, oh, oh c’è molto di più. C’è l’affresco di un paese che vive forse la sua trasformazione sociale più drastica del dopoguerra, quando abbandona definitivamente il lungo strascico degli anni di piombo ed entra nel decennio dell’edonismo, del divertimento, della tv commerciale, della musica di plastica e dell’apparente benessere per tutti.

Ed è proprio il 1983 il momento della svolta, come l’autore sintetizza benissimo nel primo capitolo, animato dalla stessa lucidità disincantata di Tommaso Labranca (peraltro citato). Il libro è di fatto una continua alternanza di eventi legati alla musica e di quello che hanno significato sul piano culturale; e nel continuo riferimento agli anni ottanta non c’è zuccherosa nostalgia, se non un profondo affetto e la sensazione dell’impatto che quel periodo riverbera ancora oggi nella coscienza collettiva.

Resta da dire ancora una cosa su questo libro. Non solo c’è tanto, tantissimo da imparare (o almeno da ricordare; la tendenza di De Luca al name dropping può essere addirittura disorientante, talmente è continua e centrata), non solo per chi ha vissuto quegli anni può scappare la lacrimuccia; è che questo libro è un divertimento genuino da cima a fondo, con una serie interminabile di aneddoti gustosi e un capitolo finale che è una distopia da Festivalbar (leggere per credere) poco meno che geniale.

Finora, senza dubbio libro dell’anno.

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