I 10 migliori album del 2023 di Luca Canini

La classifica dei dischi usciti nel 2023 secondo i collaboratori del giornale della musica

migliori dischi jazz 2023
Mike Reed
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Dieci dischi per raccontare un anno. Mica facile. Soprattutto in un 2023 che di lavori buoni ce ne ha lasciati in eredità parecchi. Soprattutto (ma non solo) in ambito jazz, che è quello dal quale ho pescato per l'immancabile playlist di dicembre. Dando spazio a quelle musiche che più mi sono rimaste nelle orecchie e che hanno girato a lungo nel mio lettore cd o sul piatto del mio giradischi (oltre che in formato digitale).

Mi rendo conto, a scelte fatte, che l'elenco è piuttosto sbilanciato verso una certa idea di blackness, verso Chicago e dintorni, verso la tradizione in movimento. Ma stavolta, approfittando anche del format a firma unica, ho preferito puntare sulla sincerità, sul personale, mettendo da parte le ragioni di stato e gli equilibri geopolitici.

Quindi prendetela come viene, direbbe il Drugo, senza pensare troppo ai dischi che non ci sono e ai dischi che avrebbero potuto (o peggio ancora dovuto) esserci. Dalle mie parti questo è quello che ha girato di più: è andata così, che ci vogliamo fare?

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1. Mike Reed, The Separatist Party (We Jazz Records/Astral Spirit)

Da Chicago alla Finlandia il passo è breve. Soprattutto se c'è di mezzo una delle etichette del momento. È la We Jazz a mettere la firma, in tandem con la Astral Spirit, sul ritorno in grande stile del batterista Mike Reed. Che tira in mezzo i Bitchin Bajas, Ben LaMar Gray e Marvin Tate per una fluttuante lezione di modernità, per un omaggio mascherato da celebrazione collettiva al Sun Ra di Lanquidity e agli dei del groove, al jazz come mutazione continua e alla blackness come eterna fuga verso l'impossibile. Meraviglioso.

– Leggi anche: Jazz, chiamiamolo con il suo nome

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2. Tyshawn Sorey Trio, Continuing (Pi Recordings)

La faccenda inizia a farsi imbarazzante. Perché a memoria non sono molte le band che nel giro di così poco tempo, parliamo di un anno tra il primo e il terzo disco, sono riuscite a lasciare un segno così profondo. Il piano trio del batterista Tyshawn Sorey, dopo Mesmerism e il doppio dal vivo The Off-Broadway Guide to Synergism, allargato al sax contralto di Greg Osby, ribadisce di essere qualcosa di unico e di inimitabile con i quattro lunghi brani messi in scaletta per Continuing.

Uno standard, "Angel Eyes", "Reincarnation Love Blues" di Wayne Shorter (periodo Jazz Messengers), "Seleritus" di Ahmad Jamal, "In What Direction Are You Headed" di Harold Mabern e tanti saluti al resto dei normali. Giganteschi.

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3. Jaimie Branch, Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)) (International Anthem)

Il disco dell'anno? Qualcosa del genere. Di sicuro il disco che vi capiterà di incontrare più spesso tra resoconti e classifiche. Non solo in ambito jazz. Perché la tragica scomparsa di Jaimie Branch, nell'agosto del 2022, ha dato il via libera definitivo alla consacrazione di una musicista a tutto campo. Un'attenzione strameritata. Anche alla luce di un disco-testamento che riafferma con forza, con trasporto, con traboccante entusiasmo, la visione unica di un'artista che ha lasciato un vuoto enorme al centro del jazz. Fly, die and fly forever.

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4. Jason Moran, From the Dancehall to the Battlefield (Yes Records)

A lezione di storia (afroamericana) da Jason Moran. Che si siede al pianoforte per una dotta meditazione sul senso profondo del fare jazz a un secolo abbondante dall'atto ufficiale di nascita (e a chissà quanti anni dalle prime tracce di swing). La figura di riferimento è una specie di padre adottivo, quel James Reese Europe che è passato alla storia della black music come uno dei bandleader più influenti nella New York dei primi del Novecento. Una vita incredibile la sua, attorno alla quale modellare un grandioso trattato sonoro sull'arte della perfetta continuità tra passato, presente e futuro.

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5. Darius Jones, fLuXkit Vancouver (We Jazz Records)

Darius Jones imbraccia il sax contralto e si mette sulle tracce dello spirito santo del free. Sarà per gli archi che fanno tanto sestetto, sarà per i contorni sfocati di brani che assomigliano a disperati sermoni (c'è Gerald Cleaver alla batteria, uno che sa come giocare di sponda con la pulsazione ritmica), ma tutto dalle parti di FLuXkit grida Albert Ayler. Che è un gran bel gridare in un'epoca in cui i toni medi, le suonatine da cameretta, i dischetti tutti perfettini e tutti bellini, sembrano avere preso il sopravvento sul lato feroce del jazz. Qui volano schiaffi ed è un piacere.

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6. Matana Roberts, Coin Coin Chapter Five: In the Garden... (Constellation)

L'America in black e in jazz di Matana Roberts, capitolo numero cinque. Il viaggio prosegue. Stavolta seguendo il filo rosso sangue e nero tragedia di una vicenda di famiglia, la morte di un'antenata della sassofonista di Chicago dovuta alle complicanze di un aborto illegale. Il dramma privato che si fa lezione universale ("my name is your name", ripete ossessivamente la sacerdotessa Matana durante la celebrazione del rito funebre), un ponte visionario tra le generazioni.

La rabbia, il dolore, l'orgoglio; in uno struggente ritratto sotto forma di requiem che tiene assieme il fife and drum blues delle Colline del Mississippi, la spiritualità del Sud, le molteplici sensibilità di derivazione AACM, la furia del free e l'elusività delle avanguardie (ufficiali e non). Un'altra pagina dal grande libro Coin Coin della storia afroamericana.

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7. Rob Mazurek Exploding Star Orchestra, Lightning Dreamers (International Anthem)

Verso l'infinito e oltre. A bordo della nuova Exploding Star Orchestra, con il capitano Rob Mazurek, un equipaggio di esploratori dell'ignoto profondo del quale fanno parte Craig Taborn, Jeff Parker, Angelica Sanchez, Damon Locks, Nicole Mitchell, Gerald Cleaver e Mauricio Takara.

Le coordinate sono quelle di sempre, lungo le rotte tracciate dall'astronave madre del comandante Sun Ra. In un tripudio di satelliti sfrigolanti, bastioni in fiamme, meteore luminose, dense nebulose di suono e improvvisi squarci nello spazio-tempo. Allacciarsi le cinture e prepararsi alla velocità smodata.

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8. Natural Information Society, Since Time Is Gravity (Aguirre Records)

È dal 2010 che Joshua Abrams si diverte a formulare e riformulare il concetto di Natural Information Society. Per Since Time Is Gravity l'idea di trance-jazz sviluppata nei sei lavori precedenti si allarga a un ensemble di medie dimensioni che parla la lingua segreta degli sciamani di Chicago. Lisa Alvarado, Mikel Patrick Avery, Josh Berman, Kara Bershad, Hamid Drake, Ben LaMar Gay, Jason Stein, Nick Mazzarella, Ari Brown, Mai Sugimoto: tutti insieme psichedelicamente.

Per un manuale dell'arte di perdersi che mette in fila una serie di ascetiche meditazioni sul potere straniante della musica. Credeteci e anche voi sarete salvati.

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9. Michele Bonifati Emong, Three Knots (Nusica.org)

È il respiro a fare la differenza negli Emong del chitarrista Michele Bonifati. Il respiro di un quartetto che la batteria di Evita Polidoro, il sax contralto di Manuel Caliumi e il trombone di Federico Pierantoni riescono a spingere oltre i limiti fisici del formato ridotto; il respiro di una serie di composizioni che hanno l'urgenza impellente di immaginare, di mostrare, di raccontare.

C'è tanto, tanto cuore in Three Knots, ci sono l'ispirazione giusta e un universo da scoprire. A voi l'onere, e l'onore, del viaggio.

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10. Kahil El'Zabar's Ethnic Heritage Ensemble, Spirit Gatherer: Tribute to Don Cherry (Spiritmuse Records)

Con Kahil El'Zabar sulle tracce mistiche dello spirito guida Don Cherry. L'ennesimo colpo da (nuovo) maestro è con dedica, anche se la poetica di riferimento è quella di sempre, la stessa che abbiamo imparato a conoscere lungo le recenti (e meno recenti) tappe di un percorso che l'ha elevato al rango di profeta della spiritualità in jazz. Con i soliti noti, Corey Wilkes (tromba) e Alex Harding (sax baritono), la voce di Dwight Trible e al pianoforte la presenza di David Ornette Cherry, figlio di mister Multikulti. L'estasi non è mai stata così danzante.

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