Guido Harari, l’uomo con la macchina fotografica

Guido Harari racconta i suoi cinquant'anni di fotografia musicale (ma non solo)

Guido Harari
Guido Harari (foto di Riccardo Piccirillo)
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Nell’ambito della mostra antologica Sguardo privato dedicata alle opere prime del pittore torinese Fabio Bellitti, organizzata da InPoetica presso lo spazio espositivo Ultraspazio Club all’interno dello splendido Palazzo Costa Carrù della Trinità a Torino, si è tenuto un incontro col fotografo Guido Harari, ormai piemontese d’azione visto che ha eletto la città di Alba a sua residenza.

È stata l’occasione per presentare l’esperienza della Caverna Magica, iniziativa cominciata ad Ancona nel 2022 all’interno della prima tappa della mostra antologica itinerante Remain in light che celebra i 50 anni di carriera del fotografo nato a Il Cairo, un set fotografico in cui, in determinati giorni, i visitatori che si erano precedentemente prenotati si sono fatti ritrarre da Harari ricevendo il giorno stesso una stampa Fine Art firmata e dedicata del proprio ritratto.

Queste fotografie sono anche state esposte nella sala della mostra denominata Gli occhi di Ancona, una mostra nella mostra che si è generata durante le tre sessioni di Caverna Magica. La stessa mostra work in progress è stata e sarà presente durante tutte le tappe della mostra antologica di Harari.

Una sfida senz’altro impegnativa quella di cercare di interpretare le diverse personalità dei soggetti in pochi minuti, basandosi sulle poche informazioni ricevute negli istanti precedenti gli scatti.

Un lavoro in cui l’occhio esperto del fotografo si deve sposare con la psicologia che in alcuni casi, come ha detto lo stesso Harari, è sfociata nell’atto psicomagico, per citare Jodorowsky. A questo proposito ho trovato toccante, per vicende mie personali, il racconto relativo a un soggetto maschile che, alla domanda di Harari su quale fosse la sua occupazione nella vita di tutti i giorni, rispose con «un anno fa ho avuto un ictus, ho perso il colore», ammettendo che questo evento traumatico aveva ormai occupato interamente la sua esistenza e che c’era un prima colorato e un dopo in bianco e nero.

Al termine della sessione fotografica Harari consigliò all’uomo di tenere in un cassetto la fotografia, come una lista di buoni propositi per l’anno nuovo, e dopo un anno lo chiamò, per sentirsi dire che le cose stavano andando un po’ meglio. E adesso si capisce meglio il riferimento alla psicomagia.

Ma questo è Il giornale della musica e quindi nella mezz’ora che Harari mi ha dedicato al termine della sua presentazione della Caverna Magica mi sono concentrato sui suoi rapporti lavorativi con la musica, anche se da qualche anno a questa parte si sono diradati – e vedremo il perché.

Prima, nel corso della presentazione, hai detto di esserti stufato di fotografare i vip o pseudo tali: riportando questa noia all’ambito musicale, pensi che derivi da una minor creatività richiesta da parte delle case discografiche o delle riviste oppure da un tuo diminuito interesse verso i musicisti degli ultimi dieci anni?  

«In realtà questa sensazione di minor interesse è cominciato alla fine degli anni Novanta, un po’ perché volevo spaziare e non sentirmi incasellato esclusivamente sotto l’etichetta “musica”, e un po’ perché l’accesso agli artisti stava diventando sempre più tortuoso e faticoso, senza la possibilità di approfondire i rapporti, che poi era la cosa che più m’interessava».

«Volevo spaziare e non sentirmi incasellato esclusivamente sotto l’etichetta “musica”, e un po’ perché l’accesso agli artisti stava diventando sempre più tortuoso e faticoso, senza la possibilità di approfondire i rapporti, che poi era la cosa che più m’interessava».

«Invece tutto è diventato più superficiale, al punto che per qualche anno ho smesso di fare fotografie e mi sono dedicato ai libri, mettendo mano al mio archivio composto da cinquant'anni di lavoro».

«In questi anni la musica è cambiata tanto, ma soprattutto è cambiata la sua funzione, è cambiata la sua fruizione, internet ha massacrato le riviste, stanno scomparendo anche le edicole. Ci tengo a sottolineare che non ho cambiato ambito per necessità: in realtà quando la richiesta è diminuita, io stavo già lavorando su altro, al limite portando avanti in parallelo la fotografia musicale e il resto».

«Gli artisti di oggi sono – come dire? – di quarta, quinta o sesta generazione, non vedo in giro gente brava a scrivere testi o con una grande competenza musicale, tutto può essere riprodotto facilmente con la tecnologia e alla fine manca la densità. Non è questione di nostalgia, è che proprio manca il peso specifico».

E dunque viene meno la curiosità di approfondire. 

«Sì, anche perché le cose sono già successe. Puoi fare canzoni di protesta in chiave rap ma, con i dovuti distinguo, non c’è nulla che Woody Guthrie o Bob Dylan non abbiano già detto, anche perché i problemi mondiali continuano a riproporsi nelle stesse maniere e alla fine si è un po’ costretti a parlare degli stessi temi usando le stesse parole. È come se mancasse il linguaggio».

«Lo scenario è così cambiato che la musica è un’arma spuntata, non riuscirà a cambiare il mondo e lo abbiamo capito da un po’».

«Del resto lo scenario è così cambiato che la musica è un’arma spuntata, non riuscirà a cambiare il mondo e lo abbiamo capito da un po’. Come diceva Fabrizio De André, la musica al limite può cambiare le coscienze, non può certo risolvere i problemi. Oggi un’eventuale canzone su quello che succede in Medioriente non servirebbe a niente. Oggi la musica, e non solo lei, è addomesticata e non risulta credibile».

«E poi diciamolo, ce n’è troppa a disposizione e spesso gratuitamente: ne ascoltiamo di più rispetto al passato ma con un’attenzione inferiore».

C’è un momento della tua carriera in cui, magari dopo il primo servizio con un nome importante, hai pensato di essere non dico arrivato ma almeno entrato a far parte di un giro più importante?

«In realtà ho capito che avrei potuto continuare a fare seriamente il lavoro che mi piaceva quando ho costruito la mia rete di conoscenze, fatta di promoter, di artisti e soprattutto di discografici: tieni presente che all’epoca questi ultimi avevano la mia stessa età e quindi fra di noi c’era una certa complicità, eravamo legati dalla stessa passione».

«Adesso, o meglio già da diversi anni, la situazione è cambiata, è tutto marketing; all’epoca era più facile avvicinare gli artisti, passare del tempo con loro per cercare di capirne la personalità, perché i discografici erano, anche loro come te, dei fan».

Guido Harari - foto Lou Reed e Laurie Anderson
Lou Reed e Laurie Anderson (foto © Guido Harari)

«Agli inizi ho lavorato con gruppi di nicchia, quelli che non interessavano ai giornalisti mainstream, poi sono arrivato a nomi più grossi come Fabrizio De André, Bob Dylan, Kate Bush o Claudio Baglioni, e lì ho pensato che la mia passione era stata riconosciuta e quindi ho cominciato a lavorare con loro su progetti che sono poi sfociati in libri».

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La copertina di Real Life di Bob Dylan firmata da Guido Harari

Probabilmente prima c’era più tempo a disposizione per entrare in sintonia con gli artisti, per conoscerli, per poi cercare di catturarne l’anima attraverso l’obiettivo. Adesso rischi di fotografare degli sconosciuti.

«Ma neanche. Quando feci la copertina di Real Life di Dylan – bruttissima, fatta con gli scarti – pensai «chissà cosa succederà adesso». Niente, non successe niente. Per carità, ho fatto una copertina di Dylan, non dell’ultimo scalzacani, ma non è che dal quel momento il nome Harari mi abbia aperto delle porte».

«Quando feci la copertina di Real Life di Dylan pensai «chissà cosa succederà adesso». Niente, non successe niente».

«Ripeto, è soprattutto grazie ai promoter appassionati di musica – tra i tanti cito D’Alessandro e Galli – che sono riuscito ad avvicinare artisti che mi piacevano e con cui sono riuscito a realizzare bei progetti. Oggi è tutto basic, è tutto veloce».

harari foto mostra
La locandina della mostra Incontri – 50 anni di fotografie e racconti

Ho visto la foto impiegata per le locandine delle varie date della tua mostra Incontri – 50 anni di fotografie e racconti e non ti nascondo che quell’immagine di Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Dario Fo ha scatenato in me una grande nostalgia: per quel periodo storico, per quell’intelligenza di cui oggi avremmo bisogno come l’aria, per quell’allegria scanzonata che ci divertiva facendoci allo stesso tempo riflettere.

«Sì, c’è intelligenza attiva, c’è gioiosità. Come mi hai detto prima, sono d’accordo con te che uno dei pregi del documentario Io, noi e Gaber – per citare uno dei tre protagonisti della mia foto – è proprio quello di evidenziare l’intelligenza laterale, eterodossa, di Gaber, capace, come giustamente ricordato da Luigi Bersani, di rimuovere un po’ di polvere dall’ortodossia politica del PCI, a volte con una critica quasi violenta ma sempre con finalità costruttive e intellettualmente onesta».

Ultima domanda: quando andrai in pensione?

«Mai! Come diceva Warren Zevon, «dormirò quando sarò morto». È un’epoca di grandi energie, malgrado il momento che stiamo vivendo. C’è fermento, quello che sognavamo di fare 30 o 40 anni fa si potrebbe realizzare: ci sono assessori di 40 o 50 anni che sono cresciuti ascoltando la nostra stessa musica, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara mi hanno invitato per fare lì la mostra. Dai, è un tempo bellissimo. E poi abbiamo un’età, se non ci godiamo la vita adesso, non lo faremo mai più. Io me la godo così, sento fermento e mi appassiono».

Paolo Conte
Paolo Conte (foto © Guido Harari)

«Ho fatto ciò che ho potuto, ho fotografato ciò che ho visto» - Maurice de Vlaminck 

 

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