Giorgio Pacorig dal Friuli-Venezia Giulia all'Africa

Intervista con il pianista Giorgio Pacorig, dal recente trio con Giovanni Maier e Michele Rabbia ai progetti Maistah Aphrica e Mahakaruna Quartet

Giorgio Pacorig, intervista
Foto di Luca d'Agostino / Phocus Agency
Articolo
jazz

Pianista, pianista elettrico, compositore e improvvisatore dagli orizzonti molto vasti  e dal segno espressivo sempre originale, Giorgio Pacorig è un musicista cui non fa mai difetto il senso dell’avventura. Lo conferma appieno il nuovo disco uscito (in novembre, periodo in cui purtroppo sono già chiusi i referendum annuali…) per la Cam Records, Floating Line, in trio con il contrabbasso di Giovanni Maier e le percussioni di Michele Rabbia.

Un lavoro intenso e volutamente onirico, in cui convivono astrazioni finissime e dense concretezze, in cui echeggia uno sguardo storico mai banale (ci sono omaggi al contrabbassista Wilbur Ware e al pianista Errol Garner, certo non due personaggi molto up to date) e una tensione timbrica di straordinaria telepatia che coinvolge anche l’ascoltatore.

Giorgio Pacorig

Ma il 2017 ha visto il musicista anche alle prese con lo scoppiettante gruppo Maistah Aphrica, con il quartetto Mahakaruna e molto altro che ci siamo fatti dallo stesso Pacorig.

Partirei dal nuovo lavoro in trio con Rabbia e Maier, Floating Line: come nasce questo disco, come lavorate in questo trio?

«La nascita di questo trio risale al 2005. Dopo quel primo incontro ci siamo ripromessi di ripetere l’esperienza ma sono dovuti passare dieci anni prima che, in occasione di un concerto per il cartellone jazz di Radio 3, ci rincontrassimo. Da lì la decisione di fare un disco che ha incontrato l’interesse della CAM Jazz, etichetta per la quale è uscito Floating LinesLavoriamo molto a tavolino, nel senso che siamo spesso al bar! A parte gli scherzi (ma neanche tanto…), la musica è nata in modo naturale: ognuno di noi ha portato dei temi che abbiamo collegato con delle improvvisazioni libere. L’intento era quello: dare largo spazio ai momenti improvvisativi e cercare un buon connubio fra la parte acustica e quella elettrica ed elettronica. Si passa, quindi, da momenti più strettamente jazzistici ad altri dove la ricerca timbrica è in primo piano. È un disco vario che rispecchia gli interessi e le esperienze di tutti e tre».

Sei parte del progetto Maistah Aphrica, ce lo racconti?

«I Maistah Aphrica per me rappresentano un’esperienza davvero sorprendente. È un gruppo che ha una grande energia, una buona dose di autoironia e che al contempo lavora su un materiale musicale tutt’altro che scontato. Le composizioni, anche qui, sono di tutti i componenti del gruppo, non c’è un leader e riusciamo a lavorare in maniera paritaria, che per un gruppo così numeroso (siamo in otto) non è scontato. L’idea di partenza, nata da Clarissa Durizzotto, era quella di fare una band afro-beat ma poi quello che ne è venuto fuori è un ibrido dove le anime dei singoli si mescolano dando vita ad un crossover di generi e mondi musicali secondo me originale e vivo. Come diciamo nella presentazione: una musica immaginaria e immaginata, come essere ad una festa africana di gente che non è mai stata in Africa. Maistah Aphrica appunto!».

Nel Mahakaruna Quartet sei insieme a Cene Resnik, Gabriele Cancelli e Stefano Giust, che tipo di lavoro sta alla base del disco e della vostra cifra espressiva?

«Questo è un altro progetto di cui sono molto orgoglioso. Il disco, che si intitola Inventum, mi è stato commissionato dall’associazione Nuovo Corso di Monfalcone in occasione del 1° Maggio 2016, e già l’occasione in sé mi piace. Ho riunito questi musicisti con cui avevo già collaborato in vari altri gruppi e per cui nutro grande stima e amicizia e ho proposto dei temi popolari legati al mondo del lavoro quali “Le 8 ore”, “Il canto dei Battipali”, “Addio Lugano bella” e delle mie composizioni che potessero evocare, in qualche modo, dei momenti della vita lavorativa. L’idea di fondo è stata quella di far emergere questi temi, spesso molto melodici, da situazioni aperte e, quindi, di improvvisazione libera come in un sogno in cui affiorano delle immagini che si modificano rapidamente in qualcos’altro. In questo ho trovato la complicità totale da parte di Cene, Gabriele e Stefano, compagni di viaggio insostituibili».

Mi ha sempre colpito il tuo essere coinvolto in dinamiche estremamente interessanti per il jazz nel nostro paese, nell’interessante comunità friulana, in collettivi come El Gallo Rojo, eccetera, pur rimanendo sempre piuttosto indipendente e originale, ti va di dirmi un po’ la tua su questo?

«Parto dall’osservazione finale. Ho sempre pensato che per un musicista sia fondamentale trovare una propria strada, un proprio modo di stare nella musica e quindi anche un suono che lo renda unico e peculiare con grande rispetto del passato e del lavoro altrui ma senza aderire a un’estetica precisa se non la propria e senza cadere in fascinazioni dalle derive coveristiche. Ho cercato di lavorare in questa direzione e, di conseguenza, sono stato sempre attirato dagli ambiti di ricerca dove i confini non sono ben delineati e anzi vengono distrutti per cercare qualcosa “d’altro”. In questo senso trovo che il Friuli-Venezia Giulia sia davvero un territorio fertile dove è innata l’esigenza di andare oltre e la curiosità di scoprire cosa succede “fuori”. Fin dall’inizio della mia attività ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti della mia zona che hanno questa attitudine (penso a Massimo De Mattia, Giovanni Maier, Daniele D’Agaro, Claudio Cojaniz e altri) che mi hanno coinvolto in gruppi e orchestre che facevano della ricerca e della sperimentazione la loro ragion d’essere. Tutte queste esperienze per me sono state fondamentali. Contemporaneamente mi sono avvicinato e ho cercato di collaborare con quei musicisti, oltre regione, che si muovono in questa direzione e quindi ho conosciuto da vicino alcuni collettivi italiani e non solo (Bassesfere, El Gallo Rojo, Jazzkollective Berlin e altri). Di fatto però, anche per motivi di lontananza geografica, non sono mai entrato a far parte di nessun collettivo pur riconoscendone l’importanza cruciale per lo sviluppo di una certa scena musicale».

Si parla spesso di jazzisti che lavorano nel pop (in questi giorni abbiamo Petrella impegnato con Jovanotti), con una gran varietà di opinioni. Tu hai lavorato a lungo con Elisa. Ci racconti brevemente le riflessioni che hai tratto da questa esperienza, nel tuo caso e in generale. Vantaggi? Svantaggi? Contraddizioni? Equivoci?

«Non me la sento di esprimere un giudizio generale a riguardo perché penso che ogni storia sia a sè ed è difficile trarre delle conclusioni. La mia esperienza con Elisa è stata positiva, ho imparato delle cose che in altri ambiti non avrei dovuto affrontare e che, comunque, sono entrate a far parte del mio bagaglio. In particolare nel primo periodo in cui ero maggiormente coinvolto, forse, sono riuscito anche a portare qualcosa di mio in quella musica. Poi, con il tempo, ho sentito forte il richiamo del mondo che mi appartiene maggiormente ed eccomi qua».

Sei uno specialista anche del piano elettrico, quali sono i tuoi riferimenti in questo ambito?

«Grazie per lo “specialista”! Suono il Rhodes ormai da trent'anni e devo dire che mi diverto sempre. In gioventù sono stato folgorato dal Miles Davis di In a Silent Way e Bitches Brew , dischi che ho letteralmente consumato. Poi è stata la volta dei Weather Report di I Sing the Body Electric e Sweetnighter. In seguito le influenze maggiori sono venute dal rock (per un periodo volevo suonare il Rhodes come Tom Morello dei Rage Against the Machine suonava la chitarra…) ma anche dall’elettronica e dalla techno. In generale quando una sonorità mi piace cerco un modo di evocarla con il Rhodes e gli effetti. Oggi un musicista che mi piace molto per come usa il piano Rhodes è Jozef Dumoulin».

A quali altri progetti stai lavorando?

«Sto lavorando ad un trio con Gabriele Cancelli alla tromba e Marco D’Orlando alla batteria con cui dobbiamo registrare a breve; poi ho un duo elettronico con Andrea Gulli: The Outspace Tunes of Gullidanda & Al Sagor che stiamo portando a termine, e assieme all’attrice Aida Talliente e all’illustratore Cosimo Miorelli stiamo ultimando uno spettacolo su Willie “The Lion” Smith. Sto anche pensando ad un piano solo (lo pensavo anche nel 2016 a dire il vero…). Poi ci sono un po’ di dischi che stanno per uscire: Incipit in duo con Giovanni Maier, Dolenti Delitti Dolosi dalle Dilette Doline con Giancarlo Schiaffini (un grande onore per me!), Tristan & i Sagonauti con Tristan Honsinger, Paolo Pascolo e Gabriele Cancelli, che uscirà su cassetta, e poi c’è Pipe Dream in quintetto con Filippo Vignato, Pasquale Mirra, Zeno De Rossi e Hank Roberts con cui abbiamo in vista dei tour estivi. Forse, però, il progetto principale è quello di far girare i progetti che già esistono che troppo spesso rimangono solo su disco!».

Cosa ascolta Giorgio Pacorig in queste settimane?

«In questo periodo sto ascoltando molto Elmo Hope, poi A Different Time, disco in piano solo di John Medeski, fantastico. E poi Blue Maqams l’ultimo lavoro di Anouar Brahem, che trovo bello e con un pianista che adoro: Django Bates, di cui ho ascoltato recentemente anche Saluting Sgt Pepper, disco sorprendente come il più recente di Craig Taborn, Daylight Ghosts. Oltre a questi poi ci sono gli ascolti ricorrenti Monk, Ellington e la polifonia del Quattrocento-Cinquecento».

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