Da Beckett a Kurtág alla Scala

Ha debuttato a Milano Samuel Beckett: Fin de partie, opera lirica di György Kurtág

Samuel Beckett: Fin de partie
Beckett alla Scala (foto di Ruth Walz)
Recensione
classica
Teatro alla Scala, Milano
Samuel Beckett: Fin de partie
15 Novembre 2018 - 25 Novembre 2018

Nella pièce teatrale di Samuel Beckett le parole agiscono sui personaggi come scariche galvaniche. Una volta svanite, Hamm e Clov restano inerti. Fra loro non c'è dialettica, né c'è da contare sulle domande, perché servono solo a riempire il vuoto e le risposte inutili non scalfiscono l'immobilità. Qualsiasi tentativo di mutamento è minato in partenza, anche i pochi ricordi che affiorano sono fagocitati nell'inerzia.

Su questa rassegnata opacità di senso, György Kurtág ha costruito la sua unica opera lirica Samuel Beckett: Fin de partie (Scènes et monologues, opéra en un acte), in prima mondiale alla Scala dopo sette anni di gestazione. Il compositore si è valso di poco più della metà dell'originale francese, con l'aggiunta di una filastrocca di Beckett in inglese come prologo, e ha offerto al testo una partitura di rara densità e straodinaria espressività, quasi in controtendenza al proposito originario dello scrittore che intendeva illustrare l'incomunicabilità (formula che oggi suona antica) attraverso il mezzo primario di comunicazione, il linguaggio. Mentre la musica di Kurtag, altamente comunicativa, diventa struttura portante, veicolo di significati, di spiragli psicologici, di riacquistata umanità. Si tratta di brevi blocchi musicali, grappoli di accordi dai colori diversi, ora isolati ora collegati in sequenza, che talvolta creano inaspettati cortocircuiti, per esempio con L'enfant et les sortilèges di Ravel (il risveglio di Hamm) o con Poulenc, oltre che naturalmente con Bartok. Con un linguaggio trasparente quasi sempre cameristico, nonostante la buca ospiti un organico di più di settanta strumentisti. Lo stesso compositore ha spiegato d'aver studiato a fondo le sonorità del francese per farne affiorare i nuclei da affidare alle voci e agli strumenti. E così facendo ha infuso in Hamm (Frode Olsen), in Clov (Leigh Melrose), in Nell e Nagg (Hilary Summers e Leonardo Cortellazzi), un'energia ch'era stata loro negata, finendo per far pulsare la parola stessa e darle senso.

La produzione dell'opera ha avuto una rara chance, perché a novantadue anni Kurtag non se l'è sentita di affrontare il viaggio fino a Milano e due mesi fa ha seguito le prove a Budapest con un organico ungherese; il che ha permesso al direttore Markus Stenz e ai cantanti di arrivare già preparati alla Scala. Dove li attendeva l'allestimento firmato da Pierre Audi, alla prima esperienza scaligera, con le scene e i costumi di Christof Hetzer.

Lo spettacolo è incentrato su una casetta grigia, contenuta in altre due a mo' di scatole cinesi, che presenta un lato diverso a ogni scena, talvolta mostrando le due pattumiere abitate da Nell e Nagg, i genitori di Hamm, talvolta la sola porta d'entrata, talvolta sfruttando con bell'effetto le ombre proiettate sui muri da Hamm e Clov, che sembrano a colloquio ravvicinato mentre sul palco sono lontanissimi. Il regista ha così alleggerito elegantemente la situa­zione statica di tutta l'opera offrendo di continuo nuovi punti di vista. Un nuovo punto di vista lo ha suggerito anche Kurtag, inserendo una frase in inglese dalla Tempesta di Shakespeare: Il mio bisnonno Prospero l'ha detto: "i nostri spassi sono finiti", esclama Hamm e quando alla fine getta via il fischietto, strumento di sopraffazione di Clov, per un attimo si atteggia a Prospero che libera Ariel. Con la differenza che Clov-Ariel non è uno spirito dell'aria, ma un vecchio che non potrà mai più avere una vita propria.

 Lo spettacolo è scandito da brevi pause a sipario calato, che generano nello spettatore attimi di sospensione, ma rappresentano un invito ad approfondire il ricordo dell'ascolto e a lasciarsi ancor più coinvolgere da quello successivo. Creando così una partecipazione da parte del pubblico. Il che par proprio sia avvenuto la sera della prima, considerati gli otto minuti di applausi a termine serata. Bravissimi tutti e quattro i cantanti, impegnati anche in una non facile gestualità, e lucidissimo Markus Stenz che ha sempre ottenuto dall'orchestra sonorità nette e d'impatto sicuro nei momenti puramente sinfonici e gran rispetto per la vocalità in difficile equilibrio fra scampoli di lied e recitativi. Nel ringraziare il pubblico, il direttore ha mostrato la partitura per condividere il successo col compositore assente.

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

I poco noti mottetti e i semisconosciuti versetti diretti da Flavio Colusso a Sant’Apollinare, dove Carissimi fu maestro di cappella per quasi mezzo secolo

classica

Arte concert propone l’opera Melancholia di Mikael Karlsson tratta dal film omonimo di Lars von Trier presentata con successo a Stoccolma nello scorso autunno

classica

Piace l’allestimento di McVicar, ottimo il mezzosoprano Lea Desandre