Quattrocento volte Veni, veni, Emmanuel

Il fortunato brano di MacMillan e due Sinfonie classiche dirette da Honeck a S. Cecilia

Recensione
classica
Accademia di Santa Cecilia Roma
07 Aprile 2017
Dal 1992 ad oggi Veni, veni, Emmanuel di James MacMillan ha avuto oltre quattrocento esecuzioni: pochi brani contemporanei hanno avuto una simile accoglienza e questo non sorprende, perché non si vergogna di essere molto godibile, anzi fa di tutto per piacere agli ascoltatori di ogni tipo, offrendo a ognuno di loro qualcosa di suo gradimento. C'è il richiamo mistico, esplicitato già dal titolo, che è quello di un inno cristiano, la cui melodia è alla base del brano. Ma c'è anche - ed è questo che colpisce più immediatamente l'ascoltatore - l'aspetto virtuosistico, che per di più coinvolge non un singolo strumento ma un'intera famiglia di strumenti: dall'inizio alla fine il solista salta da uno strumento a percussione all'altro, tutti schierati davanti all'orchestra su un fronte di parecchi metri, traendone una serie di effetti molto vari, sebbene non sempre particolarmente originali. L'orecchio e l'occhio sono continuamente impegnati a seguire le sue evoluzioni e non c'è il tempo di annoiarsi, nonostante il brano duri mezz'ora. Il bravissimo Stefano Rubino è un folletto scatenato che non si lascia sgomentare dalle difficoltà e con un'espressione divertita, come se fosse un gioco da ragazzi, corre da uno strumento all'altro senza mai sbagliare un attacco. Il brano di MacMillan era già stato eseguito a Santa Cecilia quattordici anni fa, mentre da ben sessantaquattro anni mancava un caposaldo del sinfonismo come la Sinfonia n. 93 di Haydn, che apre la prodigiosa serie delle dodici londinesi. Manfred Honeck l'ha diretta con la giusta dose di vigore e ha dimostrato - se ce ne fosse ancora bisogno - che Haydn è tutt'altro che inamidato e prevedibile e che spiazza in continuazione l'ascoltatore, sia per gli sviluppi drammatici, come quando dal danzante primo tema del movimento iniziale si giunge in breve a momenti di grande tensione e perfino di violenza, sia per gli sviluppi puramente musicali, come quando dal temino del secondo movimento ha origine una serie di variazioni sorprendenti. Honeck ha concluso con una interessantissima esecuzione della Settima Sinfonia di Beethoven, cui ha dato un suono robusto tipicamente germanico, senza però renderla pesante e teutonica, ma anzi esaltandone il trascinante slancio ritmico, con continui e calibratissimi stringendo e rallentando, crescendo e diminuendo, che davano continuamente nuovo impulso a quest'inebriante "apoteosi della danza". Grande il successo per il direttore austriaco, che dopo l'emozionante Requiem di Verdi dell'anno scorso è ormai un beniamino del pubblico romano.

Interpreti: Stefano Rubino, percussioni

Orchestra: Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Direttore: Manfred Honeck

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Al Theater Basel L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart in versione scenica

classica

Un'interessantissima lettura della Nona

classica

Raffinato ciclo di concerti dell’Accademia Bartolomeo Cristofori per il festival del Maggio Musicale Fiorentino