Eredità free e nuovi pubblici

Jazz & Wine a Cormòns convince per scelte e risultati artistici

Recensione
jazz
Jazz & Wine of Peace Cormòns
18 Ottobre 2014
Il festival Jazz & Wine of Peace di Cormons (Udine) organizzato dal circolo Culturale Controtempo ha festeggiato la diciassettesima edizione confermando quanto di buono ha fin qui dimostrato. Durante il giorno diversi concerti si svolgono in chiese, castelli e cantine dei produttori locali per poi finire la sera nel Teatro Comunale e nei locali della cittadina. Il risultato di questa impostazione è un successo di pubblico che registra il tutto esaurito a quasi tutti gli appuntamenti e l’interesse della critica che attira giornalisti e operatori del settore. Gran parte degli abbonati proviene dalle vicine Austria e Slovenia, rendendo questo festival probabilmente il più internazionale nel panorama italiano. Passiamo a raccontare quello che è successo a partire dall’anteprima sabato 18 Ottobre nel Salone Centrale di Villa Manin a Passariano dove, nell’ambito della bella mostra dedicata a Man Ray, si sono esibiti il pianista Giovanni Guidi e il trombonista Gianluca Petrella. Rispetto alla recente incisione discografica (uscita in allegato al mensile “Musica Jazz”) il duo è cresciuto parecchio. Trascinato da un Petrella lucido e ispirato, passa agevolmente da momenti liberi a parti più strutturate , citazioni del canzoniere politico (“Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei) e blues in un flusso ininterrotto di invenzioni convincenti e coinvolgenti. Grande impressione ha destato la performance mattutina del 24 Ottobre del sassofonista e flautista István Grencsó, alla guida di un quartetto tutto ungherese completato da Róbert Benko al contrabbasso e dai giovani Máté Pozsár al piano e Zilvester Miklós alla batteria. Due musicisti maturi e due giovani. Il nume tutelare è John Coltrane, quello estatico di “A Love Supreme”, evocato e citato in forma di parafrasi. Sembrerebbe banale, e invece non lo è affatto: Grencsó ha personalità e riesce a fare muovere il suo gruppo in modo sorprendentemente libero da riferimenti tanto pesanti da schiacciare chi se ne accostasse in modo superficiale, stimolando i giovani a far prendere direzioni inattese ai brani: sospese, astratte e sempre fresche. A seguire, nel pomeriggio, due formazioni italiane. Il quartetto di Carlo Maver, bandoneon e flauto, con Roberto Rossi alla batteria e i notevoli Pasquale Mirra al vibrafono e Achille Succi alle ance. Il gruppo propone tutte composizioni originali del leader, tra il rifacimento dei tanghi di marca piazzolliana e escursioni nel patrimonio folclorico africano e latinoamericano (interessante “Pifanos” per flauti e percussioni ispirato alle bande brasiliane che usano il flauto omonimo). Repertorio originale anche per il trio di Tino Tracanna, con Giulio Corini al contrabbasso e Vittorio Marinoni alla batteria, di netta impronta modern mainstream. Il sassofonista sa conciliare bene robustezza ritmica e propensione melodica e il gruppo, di cui si attende a breve la documentazione discografica, si muove con agilità grazie in particolare all’apporto di Corini, musicista da tenere d’occhio anche come leader delle proprie formazioni. Il Teatro Comunale tutto esaurito ha accolto la presentazione del nuovo lavoro del chitarrista Bill Frisell, [i]Guitar in the Space Age[/i], una rilettura di brani del dopoguerra country, surf con sconfinamenti negli albori del beat. Inutile ribadire il ruolo del musicista nel jazz degli ultimi vent’anni, in particolare nell’ambito della chitarra, e l’intelligenza nel rileggere pagine di storia della musica pop - ma questo è il Frisell che ci piace di meno. Come purtroppo in altri suoi progetti similari, se è innegabile la gioia sincera e l’abilità strumentale, è altrettanto vero che l’operazione suona come lo sfogliare l’album delle figurine di quando eravamo bambini. E la distanza con i capolavori del passato, anche recente, è siderale. Dopo il tradizionale “sconfinamento” in Slovenia con il quintetto austro-argentino di Karlheinz Miklin (che ci riferiscono di bella esuberanza latin jazz) due appuntamenti in altrettante chiese hanno caratterizzato il pomeriggio. Nella suggestiva Abbazia di Rosazzo il chitarrista Garrison Fewell e il vocalist Boris Savoldelli hanno presentato il loro nuovo disco [i]Electric Bat Conspiracy[/i]. Fewell, che vive tra Boston e Bergamo ha frequentato con esiti di assoluto rilievo il mondo del free jazz. Iniziato con la declamazione di due poemi di Sun Ra e di una dedica al trombettista Roy Campbell, il concerto ha avuto momenti di palpabile commozione come il ricordo del sassofonista John Tchicai, con il quale Fewell ha collaborato per un decennio prima della scomparsa. Tra canzoni e libere improvvisazioni il duo ha pienamente convinto anche se la profondità di pensiero di Fewell va collocata decisamente su un altro piano rispetto alla pur efficace abilità di Savoldelli. Il fascino del chitarrista risiede nella sua capacità di distillare solo suoni essenziali, veri, sinceri. Il suo universo espressivo riesce a trasportarci davvero ad una dimensione dove l’elemento spirituale è la forza generatrice del suono. La piccola chiesetta di Santa Apollonia ha fatto fatica a contenere tutto il pubblico accorso per il trio di Cristof Lauer con Patrice Heral e Michel Godard. Un super trio del jazz europeo, con un piede ben piantato nel patrimonio melodico e ritmico del vecchio continente. Cavalcate solistiche e ricchezza di colori strumentali, dal sax soprano al basso tuba, hanno fatto risuonare le pareti affrescate della pieve della gioia danzante di un jazz che ama ballare. Il concerto che la cantante coreana, ma residente in europa, Youn Sun Nah aveva tenuto a Sacile un anno fa aveva fatto gridare al miracolo di una nuova possibile regina del canto jazz. Allora era in duo con il fido chitarrista Ulf Walkenius, già con Oscar Peterson, e la formula scarna ne aveva esaltato le doti. A Cormòns è ritornata in quartetto sulla scia del successo del suo album [i]Lento[/i]. Insieme al chitarrista, sul palco il fisarmonicista Vincent Peirani, la nuova star dello strumento che sta oscurando in patria Richard Galliano, e il contrabbassista Simon Tailleu. Il concerto ha fatto parecchio discutere tra detrattori e entusiasti. Noi riteniamo che la cantante abbia potenzialità enormi: estensione vocale, controllo dell’emissione, capacità interpretativa, possesso del palcoscenico. Il gruppo è di alto livello e riesce a muoversi con naturalezza in ogni direzione. L’unico punto debole è un repertorio nel quale gli originali sono gli episodi meno riusciti e uniformi. Però, quando la cantante improvvisa, o interpreta il country “Ghost Riders in the Sky”, colorandola di bagliori luciferini, o intona un brano tradizionale coreano, l’effetto è irresistibile. La domenica si apre con il musicista più atteso, il sassofonista afroamericano James Brandon Lewis, che per la prima volta si esibisce in Italia, accompagnato dai due giovani Max Johnson al contrabbasso e Dominic Fragman alla batteria in luogo di William Parker e Gerald Cleaver con i quali ha appena pubblicato [i]Divine Travels[/i]. Bastano pochi minuti per capire che ci troviamo di fronte ad un grande musicista e a un grande concerto. La ritmica è sempre free, frastagliata e tagliente. Le evoluzioni del sax tenore di Lewis saccheggiano la storia della musica afroamericana a partire dalle radici nere di blues e spiritual. Viene in mente Alber Ayler, ma è una tradizione trasfigurata, reinventata, resa materia viva e palpitante senza nessun narcisismo. Musica asciutta, cioè, con grande pathos ma nessun sentimentalismo a buon mercato. Le invocazioni salmodianti del sax si levano alte sul brulicare delle pelli percosse e delle corde pizzicate, oppure vi si incuneano con temi che potrebbero essere ornettiani. Il suono del sax è ricco di vibrato, potente, preciso. C’è spazio anche per un ricordo commosso di Charlie Haden. L’attesa non è andata delusa; questo è un musicista che dice qualcosa di nuovo. Se James Brandon Lewis rappresenta i frutti nuovi dell’estetica nera tenuta viva dal Vision di William Parker, il quintetto di Mary Halvorson rappresenta la versione aggiornata della scena downtown più intellettuale. Anche questo è un grande gruppo. Qui l’attenzione è rivolta all’estetica pop e rock nella scrittura dei temi, e alla musica contemporanea nel gusto del gioco di dissonanze. Il jazz rimane come approccio e pronuncia, ma non c’è traccia di blues. Una musica parecchio impegnativa per l’ascoltatore, che richiede attenzione e concentrazione nel seguire i percorsi destrutturati che si rimpallano la chitarrista e Jon Irabagon, Jonathan Finlayson, John Hebert e Ches Smith. La conclusione è ancora una volta nel teatro comunale per il trio israeliano di Avishai Cohen. Declinazione del piano trio secondo coordinate che puntano alla spettacolarità. Il virtuosismo del leader e la qualità dei compagni è indiscutibile, ma non basta a rendere la loro musica più di un ottimo spettacolo, gradevole e accattivante. Qualche considerazione sulle indicazioni che sembrano provenire da quanto ascoltato. Tre dei momenti più alti del Festival, István Grencsó, Garrison Fewell e James Brandon Lewis, hanno tutti in comune il riferimento ai maestri del free jazz le cui pratiche e intuizioni sono in grado di elaborare in una sintesi felice. L’adesione ad una concezione che enfatizza l’approccio spirituale, la pratica dell’improvvisazione, l’utilizzo dei materiali formali della tradizione afroamericana accomunano musiche che producono esiti diversi, tutti di forte impatto emotivo. Ci sembra di poter dire - insomma - che quella lezione è ancora oggi produttiva, mentre al contrario il filone dell’etnojazz, che in passato era stato uno dei cavalli di battaglia del festival, pur in presenza di ottimi artisti, segna il passo incapace di offrire nuovi stimoli. Una ultima riflessione sulla direzione artistica a cura di Mauro Bardusco. Questa edizione ha definito in modo ancora più chiaro le linee che la informano. Per gli appuntamenti serali al Teatro, si è puntato su un pubblico ampio, proponendo artisti in grado di attirare l’attenzione anche al di fuori dei jazz fan ma senza cadere nei soliti “senatori” o su proposte commerciali. Frisell, Youn Sun Nah e Avishai Cohen hanno avuto il merito di “svecchiare” la platea senza concedere nulla alla qualità e alla coerenza. Nelle altre location il festival gioca invece le carte più avventurose, concedendosi il gusto della scoperta di nuovi talenti e facendo ascoltare musicisti dell’area mitteleuropea praticamente sconosciuti in Italia. Se rapportati ai programmi di manifestazioni ben più finanziate e blasonate dai programmi ormai privi di alcun senso e interesse, ci sembra cosa non da poco.

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