Il manifesto di Chick Corea

Concerto in solo alla Town Hall di New York, fra ricordi e ritratti sonori improvvisati

Recensione
jazz
Blue Note Entertainment Group New York
10 Aprile 2014
Sale sul palco in jeans e giacca leggera. Parti alla mano, Chick Corea si concede qualche minuto per raccontare quello che succederà sul palco della Town Hall di New York. Il suo tour in solo fa tappa qui, «nella mia città preferita», dice. Il pianista sembra intenzionato a coinvolgere tutti e, a più riprese, si prende il tempo di scherzare con il pubblico. Lontano dall'atteggiamento distaccato di alcuni suoi colleghi, presenta tutti i brani, racconta episodi di quel passato che lo ha visto al fianco di tanti padri del jazz, da Monk a Miles. Per ognuno di loro c'è una dedica particolare. Sotto le sue dita scorrono “Ask Me Now”, in una versione quasi lirica, “Pastime Paradise” di Stevie Wonder, e una “Desafinado” fedelissima al tema, quasi a ribadire che certe melodie sono concepite in maniera perfetta e la loro bellezza viene fuori da sé. In estrema sintesi, è il manifesto di un'idea amplissima di musica: passa dall'universo sonoro di Bill Evans a quello di Chopin, mettendo in luce le tante influenze a cui è stato esposto. Fino al momento in cui, a metà fra la performance di arte contemporanea e il gioco, impersona una specie di Marina Abramovich del pianoforte: chiede ai presenti di farsi avanti per un «ritratto improvvisato». Uno a uno, li fa sedere davanti a sé, li guarda fissi negli occhi e suona per poco più di un minuto. Quattro dipinti sonori (da qualche tempo Corea ha la passione della pittura) che forse non sono il punto più alto della serata, poiché alla fine suonano tutti abbastanza simili, ma che mostrano due intenzioni molto forti: quella di evitare che il concerto in solo sia una specie di rito sacro e intangibile, e quella di andare oltre ancora una volta, spostare l'asse di riferimento, trovare un punto d'incontro fra mondi e linguaggi diversi.

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