Un secolo di Broadway sul "New York Times"

Ben Brantley, critico del quotidiano, racconta com'è cambiato il modo di raccontare i musical dai primi del Novecento a oggi

Recensione
pop
Ci sono voluti decenni prima che i musical di Broadway venissero presi sul serio. E se lo dice Ben Brantley, che dagli anni Novanta è una delle firme di punta della critica teatrale del "New York Times", c’è da crederci. Brantley ha incontrato il pubblico lo scorso mercoledì mattina, nella sala (pienissima) del 92Y di Tribeca, a sud di Manhattan, per parlare di come sia cambiato il modo di raccontare i musical dai primi del Novecento a oggi, attraverso le pagine del quotidiano newyorchese. «Escludendo Spiderman» tiene a precisare. Tanto per ribadire che, dal punto di vista della critica, lo spettacolo con le musiche di Bono Vox e The Edge (rivelatosi il più costoso della storia) è stato un flop su tutti i fronti.

Ma non c’è proprio tempo per parlare dei fiaschi in questo incontro: rintuzzato dalle domande di Peter Marks, suo ex collega al "Times" (poi passato al "Washington Post"), Brantley snocciola gli spettacoli che hanno fatto la storia, da The Merry Widow del 1907 al successo straordinario di The Book of Mormon, realizzato dagli autori di South Park nel 2011. E ripete spesso che all’inizio del Novecento l’atteggiamento della critica verso i musical era poco superiore alla considerazione. Come guardare una commediola: attori preparati, magari anche bravi, belle trovate. Ma niente di importante.

Ma come si è passati dalle piccole produzioni agli show che conquistano le prime pagine? Nessuna svolta netta, a dire la verità. Piuttosto, nota il critico, Broadway si è gradualmente guadagnata il rispetto dei giornalisti come vera e propria forma d’arte. Eppure anche il concetto di arte è profondamente mutato: mentre prima c’erano squadre costantemente al lavoro per la stesura di arrangiamenti e libretti, oggi si cerca il grosso nome da dare in pasto al pubblico: vedi Spider Man o Mamma Mia! (con le musiche degli Abba) per garantire un introito sicuro. O si opta per un “juke-box musical”, di cui tanto si parla negli ultimi anni: prendi una manciata di successi, li unisci con una trama più o meno stabile, e si va in scena.

Le immagini in bianco e nero dei primi spettacoli lasciano spazio ai colori dell’epoca più recente. E da Pal Joe a Follies, passando per Bye Bye Birdie, si arriva a West Side Story. Il fatto che anche i meno appassionati del genere lo conoscano non è dovuto solo al successo cinematografico, ma alla sua forza. Che, ancora una volta, non fu riconosciuta da chi ne scrisse nel 1957. I critici si chiedevano che senso avesse fare un musical con quella storia, e a chi potesse mai interessare. «È stato realizzato – precisa Brantley – nel bel mezzo del periodo d’oro dei musical. E oggi resta fra gli spettacoli più influenti, insieme a Gypsy: A Music Fable».

Altre svolte sono arrivate negli anni scorsi con Rent e Bring in da Noise, Bring in da Funk, che hanno iniettato una dose di nuovi ritmi e nuove danze tra le strade di Broadway, iniziando in sordina e conquistando inaspettatamente pubblico e critica.

Il vero freno oggi è la produzione: gli show costano sempre di più. Quello che manca non sono le menti creative: quelle, assicura Brantley, ci sono eccome. Mancano i produttori che vogliano rischiare, che fiutino una buona storia. Il futuro di Broadway è nelle loro mani.

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