Un festival chiamato evento

Prime a Salisburgo, fra Kaufmann e Bartoli

Recensione
classica
Una “prima” al festival di Salisburgo è senza dubbio un evento mondano-sociologico in sé. La musica fa il resto. Gli smoking, abituali già per una recita qualunque nella cittadina austriaca, pullulano, e i “Dirndl”, arborato come se fosse un abito da sera, proliferano. In un paese in cui ogni giorno i giornali dedicano almeno una pagina intera alla musica classica, le televisioni sono in agguato all’ingresso, catturando immagini degli invitati che, secondo la notorietà, devono aprirsi un varco tra microfoni e taccuini. Insomma, Cannes non sembra lontano. E anche la “prima” del Fidelio non ha fatto eccezione.

Tutti gli ingredienti erano riuniti con tanto di disperati dell’ultima ora che agitano foglietti con “Ich suche eine Karte”, sempre più logori con l’avvicinarsi dell’ora dell’inizio dello spettacolo. Non mancava nulla e non di certo la star di turno, quel Jonas Kaufmann il cui volto è a Salisburgo ovunque: dalle vetrine degli orologiai a quelle dei negozi di musica. E la polemica Sony versus Decca, alimentata personalmente dal tenore tedesco a colpi di dichiarazioni su Facebook, per l’uscita in simultanea di due album dedicati Puccini non ha fatto altro che aggiungere un po’ di salsa piccante. Insomma, come perdersi questo Fidelio?

Purtroppo le speranze vengono rapidamente tradite. Per colpa soprattutto (e quasi esclusivamente) del regista Claus Guth, che aveva eppure firmato una travolgente trilogia mozartiana zampillante di trovate geniali. Con Beethoven, invece, pare a corto di idee. O meglio di idee ne ha solo una: anziché essere un’opera della libertà, Fidelio è la celebrazione della prigionia da cui non c’è scampo. Ecco allora spiegato perché non c’è happy end (l’eroe cade a terra all’ultimo accordo) e perché un enorme blocco nero giganteggia sulla scena sin dall’inizio. In teoria, questa trovata avrebbe potuto fornire una lettura nuova. Purtroppo, non regge l’urto della scena, sgretolandosi assai rapidamente. Dopo pochi minuti, tutto diventa ripetitivo, stantio e lo stesso regista sembra non sapere come togliersi d’impaccio: il blocco nero si alza e si abbassa nella scena della prigione, senza più alcuna logica né, tantomeno, sorpresa.

Per altro, la versione dell’opera beethoveniana prodotta è senza i dialoghi parlati, che sono stati tagliati per lasciare il posto vuoi a rumori – che evocano quelli sordi di un enorme masso che ruota – riprodotti da una registrazione vuoi da un’attrice sordomuta che, nel linguaggio dei segni, traduce quello che il libretto avrebbe dovuto dire. Lo spaesamento lascia rapidamente il posto alla noia. Anche perché i cantanti si muovono in scena come vogliono, senza indicazioni registiche o così almeno pare. Se certe regie si riescono ad evitare chiudendo gli occhi, questa pregiudica a tal punto tutta la realizzazione musicale che è tutta l’opera a pagarne le spese. Per il pubblico non resta che attendere la fine per sommergere Guth di fischi. Come è accaduto, ovviamente. Anche gli smoking, solitamente inappuntabili, hanno sonoramente reagito.

Peccato, perché quella di Kaufmann è stata un’esecuzione ineccepibile. Sia stilisticamente, sia tecnicamente. Ed inoltre il tenore è pure un eccellente attore capace di tradurre fisicamente la tortura e la sofferenza di Florestan. Convince pienamente pure Adrianne Pieczonka che pare, però, più a suo agio con i passaggi di forza drammatica che con quelli più melodici. Impressionante, come al solito, il wagneriano Thomasz Konieczny, che ha appena brillato nel Ring della Wiener Staatsoper con la direzione di Simon Rattle: il suo è un Pizarro da antologia. Sotto la bacchetta di Franz Welser-Möst, i Wiener hanno reso l’opera con tutta la forza e la virtuosità di cui sono capaci. Specie l’esecuzione dell’ouverture “Leonora 3” intercalata, secondo tradizione, prima della parte finale ha offerto un concerto in sé di altissimo livello, che neppure la regia è riuscita a mettere in pericolo. E sono in momenti come questo che si rimpiangono le esecuzioni in versione da concerto.

Da una diva all’altra, la Norma di Cecilia Bartoli non era di certo meno attesa. Figuriamoci. La cantante romana gioca in casa a Salisburgo, dove dirige anche il festival di Pentecoste. E tutta la produzione dell’opera belliniana è costruita intorno a lei. Tanto che nel testo del programma la Bartoli non esita a spiegare le scelte registiche, lasciando intendere che ci ha messo più che lo zampino. Vi si ritrovano tutti i fedeli: l’orchestra di Zurigo La scintilla, il direttore Giovanni Antonini, complice del trionfo vivaldiano, il tenore John Osborne con cui ha recentemente cantato pure nell’Otello di Rossini e gli immancabili Moshe Leiser e Patrice Caurier. Quando la Bartoli parla della “nostra produzione”, suona come un pluralis majestatis. Il disco uscito dalla Decca due anni fa – con gli stessi artisti, ad eccezione di Sumi Jo sostituita sulla scena da Rebeca Olvera, altra habituée delle produzioni della Bartoli – non ha tolto niente all’attesa.

Grazie anche alla nuova partitura preparata da Maurizio Biondi e da Riccardo Minasi, basata sull’autografo di Bellini conservato alla biblioteca di Santa Cecilia a Roma, questa Norma rigurgita di novità: l’orchestrazione, certe pagine tra cui “Guerra! Guerra!”, la scelta dei tempi (tutti molto più rapidi di quelli che ci ha consegnato la tradizione esecutiva) e ovviamente il ricorso agli strumenti d’epoca. Ci provò già Fabio Biondi a Parma nel 2001, grazie all’assistenza musicologica del fratello Maurizio. Quella Norma “filologica” venne aspramente criticata, mentre questa di Salisburgo è stata ovazionata. La Bartoli ammalia optando per i pianissimi. E “Casta diva” esalta il pubblico che sembra ascoltarlo per la prima volta. Fresca, spontanea, sempre impeccabile è l’Adalgisa di Rebeca Olvera. Semplicemente perfetto John Osborn. Molto raffinata La Scintilla che brilla specie nel mettere in risalto i fiati, spesso soffocati dagli archi nelle disposizioni più convenzionali. Antonini ci avrebbe guadagnato a non lasciarsi trascinare, accelerando specie nei finali. I registi Leiser e Caurier – ma che sia una volontà della prima donna? – spostano l’azione nella Francia occupata dalle truppe naziste. Tale scelta non funziona per tutta l’opera. Ha almeno un pregio: libera la vicenda dalla patina religiosa per incentrarsi in passioni tutte umane.

Ancora Le nozze di Figaro a Salisburgo? Ce la farà questa produzione a non scivolare nella routine senza fare la scelta della provocazione gratuita a tutti i costi? Insomma, è con non poca apprensione che si entra nella Haus für Mozart per questa produzione di Sven-Eric Bechtolf, ormai nuovo direttore del festival di Salisburgo. E il miracolo fu. Il lavoro di Bechtolf è minuzioso, con una cura maniacale dei dettagli: ogni cantante si muove con la credibilità di un vero attore di teatro. Quello del conte d’Almaviva somiglia al castello di Downton Abbey: l’ambientazione è la stessa, così come i costumi e il tipo di dinamica sociale con una società pseudo-feudale che coabita nello stesso microcosmo. D’altra parte, è la poli-coralità della vicenda che viene messa avanti: lo spettatore può non solo seguire l’azione del libretto, ma anche quello che potrebbe verosimilmente accadere intorno. Perché la scena è dilatata tanto in larghezza quanto in altezza. Qualcosa del genere aveva pure tentato, lo scorso inverno, Felix Breisach al Theater an der Wien con esisti catastrofici. Invece, Bechtolf se ne serve con maestria. Il capolavoro nel capolavoro resterà sicuramente il finale del II atto.

Tra il cast, tutto di alto livello, svettano Luca Pisaroni e Anett Fritsch. Per felice combinazione di rotondità timbrica, sicurezza tecnica e agilità attoriale, Pisaroni ci consegna un conte da manuale. Fritsch è una partner di rango e i toni elegiaci della contessa le vanno a pennello. Molto applaudito il Cherubino di Margarita Gritskova, la cui voce però, scura e matura, sembra poco adatta per la parte. Speriamo che un DVD arrivi presto per prolungare il ricordo di una serata piena di delizie.

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