Torino violenta (e nostalgica)

Micah Hinson, Bachi da Pietra, Hugo Race per la seconda serata di Spaziale

Micah P. Hinson (foto j.t.)
Micah P. Hinson (foto j.t.)
Recensione
pop
Spaziale Festival Torino
21 Luglio 2010
Una prima serata femminile – molto femminile – con Kaki King e Cocorosie (e le giovani Carlot-ta e Jolanda opening act). Una seconda serata maschile – molto maschile(con l’eccezione della prima sul palco, la brava “cantautrice” siciliana unePassante). Questa la traiettoria dei primi due giorni di Spaziale Festival, a Torino, fra gli appuntamenti italiani più abili a intercettare talenti fuori dagli schemi. La serata “maschile” accosta Bologna Violenta, Bachi da Pietra, Hugo Race and the Fatalists e Micah P. Hinson. Violenza, saturazione, blues e nostalgia tutti arrotolati in uno, in uno spettro cangiante che dal grindcore elettronico (ma merita definirlo così?) di Bologna Violenta sfuma fino a John Denver, con il cui classico “This Old Guitar” Micah P. Hinson saluta il pubblico. Violenza dunque, celebrata nel moniker e nei suoni da Nicola Manzan, violinista prediletto del miglior indie italiano e ora autore di un flusso decostruito (difficile parlare di “canzoni”) di riff metallici tritati e voci registrate – film, documentari, chissà che altro – che parlano di morte e sesso. Irrestibile ed estrema alternativa a – più o meno – qualunque cosa possiate ascoltare. Violenza sussurrata, fatta di blues saturo e finta elettronica, acustica e suonata, per i Bachi da Pietra, tra le migliori band uscite negli ultimi anni: testi personali, notturni, adirati ma mai urlati, in un climax di tensione che non si risolve mai. Saturazione oltre il blues per Hugo Race, australiano già con Nick Cave, fresco del progetto Dirt Music dedicato al “rock” maliano, insieme ai Tamikrest. “Dirt music” è anche quella che suona con i Fatalists, band italiana che lo accompagna – in tutto un’altra chitarra e una batteria. Lunghe, ipnotiche ballad elettriche. Saturazione acustica e nostalgica per l’headliner Micah P. Hinson, in solitario sul palco. Hinson, giovanissimo e con alle spalle un già congruo numero di dischi, ha il carisma per tenere in un solo show, complice anche una spiccata predilezione all’anedottica spicciola (nonni, padri, madri, amori) e alla vena surreale («Vengo da una terra chiamata Texas. L’abbiamo rubata ai Messicani, ma non ci importa»). Hinson incanta con la sua voce profonda, ora sforzata ora dolce. La sua musica (ed è parte del suo fascino) è totalmente scollata dal personaggio, un dandy un po’ nerd che stringe sempre fra i denti una sigaretta dal lungo bocchino. Un Johnny Cash - o un John Denver - più tossico, anoressico, col piercing; un romantico e nostalgico figlio del grunge, in fondo.

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