TJF 2: Effetto MITO

Da Steve Lehman alla Passione secondo James Newton

Recensione
jazz
Se ne aveva il sospetto, ma la prova si è avuta nel primo concerto mattutino del Torino Jazz Festival 2015: il festival si è “mitizzato” – nel senso del festival MITO.

L’effetto MITO è quel fenomeno per cui, ad un certo punto, i torinesi cominciano a fidarsi della programmazione di un festival e ad affollarne i concerti indipendentemente dall’artista in programma. È soprattutto, però, una fascia di pubblico ad essere interessata dall’effetto MITO: quella più agé, la stessa che garantisce affluenze da finale di coppa a concerti di oscuri repertori contemporanei in orari mattutini o comunque complicati per chi lavora. Nel caso del concerto dell’ottetto di Steve Lehman – una delle formazioni più avanzate del jazz di oggi, ha ricordato a ragione il direttore artistico Stefano Zenni – molto ha fatto però la location inedita: l'auditorium del nuovo grattacielo Intesa Sanpaolo, progettato da Renzo Piano. Con gente in attesa un’ora e mezza prima dell’inizio, un nutrito numero di spettatori (almeno un centinaio) è rimasto fuori.

Soddisfatta la curiosità per la nuova struttura, posso affermare che ora Torino ha una nuova sala (dall’architettura abbastanza anonima, per la verità) del tutto inadatta a determinati repertori: sicuramente, fra questi c’è la musica di Steve Lehman. Il gruppo conta alcuni dei migliori strumentisti in circolazione, e il recente Mise en Abîme ha attirato unanimi entusiasmi (Miglior musicista, Miglior disco e Miglior formazione dell’anno al Top Jazz, per dire). Le angolosità di suono, le svolte imprevedibili, la “matematicità” di molte soluzioni, sempre sostenute da una ritmica presente, inventiva e “rumorosa” confermano gli entusiasmi: si ha davvero l’impressione di ascoltare qualcosa di nuovo, una volta tanto. Purtroppo, l'acustica sala non sembra riuscire a gestire tanto suono: la batteria (amplificata) è fin troppo presente, e in alcuni punti si faticano distinguere il contrabbasso e la tuba (almeno dalla mia posizione – che per la verità è vicino al mixer), e anche il sax del leader rimane a volte sacrificato. Alla fine il momento più memorabile è una lunga sequenza in sopranino solo dello stesso Lehman, che ripulisce le orecchie e conferma le sue doti di strumentista, oltre che di eccellente compositore.



Il pubblico ha affollato anche i concerti serali: la sera prima, successo enorme per Hugh Masekela, la sera stessa commozione per la “Trumpet Night” con Fabrizio Bosso e Randy Brecker, che si è trasformata in corsa in un sentito omaggio a Marco Tamburini, scomparso improvvisamente la sera precedente.

Masekela, in particolare, ha mostrato classe cristallina nel tenere il palco e invidiabile condizione fisica, a dispetto dei suoi 76 anni. Il suono del trombettista sudafricano è ancora perfetto, e anche se non può più permettersi di suonare il suo strumento tanto quanto un tempo (gli interventi della tromba sono meno di quanto vorremmo), sa ovviare all’inconveniente con il mestiere: canta, fa cantare il pubblico, e si fa sostenere dalla band, cui lascia ampio spazio (ad esempio, nella torrenziale versione di “Lady” di Fela Kuti, che già aveva inciso nel suo disco Hope, negli anni Novanta, e che a Torino si apre in lunghissime sezioni improvvisate sul riff). È anche bello vedere come questi concerti sappiano attirare in piazza, oltre agli appassionati di jazz e world music e al pubblico generico di passaggio per lo “struscio” serale, i torinesi di origine africana: in tantissimi (come già era stato l’anno scorso per Manu Dibango) si affollano all’ingresso del backstage per rubare una foto o un autografo.




Grande attesa c’era per una delle produzioni originali del festival, la Passione secondo Matteo di James Newton, per soli, coro da camera, orchestra da camera e sezione ritmica, con l’orchestra del Teatro Regio diretta da Grant Gershon, il coro del Teatro Regio diretto da Claudio Fenoglio e le voci – fra gli altri – di Roberto Abbondanza e John Bellemer. Il concerto era inserito anche nella rassegna Note per la Sindone. Nella bella intervista che gli ha fatto Simone Garino per il TJF, a margine della presentazione del Sonic Genome di Anthony Braxton (la trovate qui sotto), Newton ha rintracciato le fonti del suo modo di comporre per orchestra nella Sesta di Mahler diretta da Abbado, nei Sacred Concerts, e ha riconosciuto alla base del progetto un diretto parallelismo fra la figura del Cristo e le minoranze afroamericane oppresse. Newton si è anche commosso raccontando la sua ispirazione: «per quanto possa suonare strano, io credo che lo spirito santo sia venuto da me mi abbia dato una missione», una «esperienza che cambia la vita».



La passione, dunque, ripensata come una «blues narrative». Tuttavia, quanto ascoltato all’Auditorium della Rai sembra contraddire la visione dell'autore: a fronte dei proclami, infatti, il tutto suona più come un lavoro di “contemporanea” che occhieggia a mondi musicali afroamericani che non viceversa. Nonostante un’orchestrazione sapiente e brillante, mancano, insomma, spunti innovativi: molto tradizionale – e talvolta un po’ piatto – è ad esempio l’uso delle voci liriche; poco sfruttata la presenza di una batteria e di una sezione ritmica corposa (salvo alcuni passaggi interessanti sui timpani). Le parti cantate riprendono direttamente il testo evangelico senza rielaborazioni, e senza grande attenzione alla drammaturgia, con il risultato che la narrazione risulta in alcuni tratti un po’ macchinosa.

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