Roberto Abbado riporta I Masnadieri a Roma dopo quasi mezzo secolo

Una realizzazione musicale complessivamente valida per l'opera di Verdi, ma delude il debutto operistico del regista Massimo Popolizio

Masnadieri opera di Roma - Popolizio e Abbado
Foto di Yasuko Kageyama
Recensione
classica
Teatro dell’Opera di Roma
I Masnadieri
21 Gennaio 2018 - 04 Febbraio 2018

I Masnadieri è una delle opere meno rappresentate di Giuseppe Verdi (a Roma mancava dal 1972), eppure è una delle più interessanti e originali dei suoi anni giovanili, nonostante momenti deboli e disuguaglianze. Fu scritta nel 1847, in un periodo in cui Verdi cercava strade nuove ma si portava ancora appresso un forte retaggio del passato, che affiora sia nell’organizzazione drammaturgico-musicale (le tre cavatine di fila dei tre protagonisti nel primo atto) sia nell’invenzione melodico-vocale, con evidenti rimembranze di Bellini e di Donizetti. Come la quasi citazione della “Furtiva lacrima”, sorprendente e incongrua in un contesto così fosco e drammatico. Ma è più giusto sottolineare gli aspetti nuovi, a cominciare dal soggetto prescelto, Die Raüber, scritto da Schiller nel 1781, nel momento più esasperato della sua fase Sturm und Drang: il ventunenne poeta tedesco è qui ferocemente polemico contro la società dell’epoca, la sua mentalità e le sue istituzioni, ma non salva nemmeno l’individuo, nel cui animo le forze del male soverchiano quelle del bene.

Certamente ridurre a libretto il dramma di Schiller era un compito difficile, cui Andrea Maffei assolse nel peggiore dei modi possibili. Eppure in quei versi grotteschi (volontariamente) e ridicoli (involontariamente) e in quella struttura drammatica elementare e schematica Verdi trovò quel che gli bastava per conservare atmosfera, carattere e tinta dell’originale. Sorprende che un regista che viene dalla prosa come Massimo Popolizio non abbia minimamente cercato di rintracciare Schiller dietro il goffo libretto e non sia partito da lì. Senza dare importanza al fatto che Schiller parlava del mondo a lui contemporaneo, ha dichiarato che fatti così efferati gli sembravano improbabili nel Settecento e di conseguenza ha retrodatato l’opera di mezzo millennio, in pieno medioevo. Così facendo, ha distrutto il senso e il valore della scelta di un argomento moderno da parte di Verdi, che in quegli anni stava cercando di liberarsi dai soggetti pseudostorici di rigore (disse esplicitamente: “sono un po’ stanco di questi Crociati”, cercando al loro posto "qualche cosa di più nuovo e di più piccante") e che proprio con I Masnadieri iniziò un percorso che attraverso la Luisa MiIler e lo Stiffelio lo avrebbe portato alla totale contemporaneità della Traviata.

Foto di Yasuko Kageyama
Foto di Yasuko Kageyama

Oltre questa discutibilissima idea iniziale, Popolizio – in evidente imbarazzo in questo suo debutto in campo operistico – non ne ha avute altre per tutte le due ore e mezza di spettacolo, trascorse nella quasi totale immobilità (se si escludono genialate, come i masnadieri  che fanno quel gioco infantile chiamato “campana” o “settimana” o in altri modi ancora, a seconda delle regioni d’Italia) e nel totale grigiore, in senso non solamente figurato ma anche letterale: grigie le scene di Sergio Tramonti, grigi i costumi di Silvia Aymonino e grigie le luci di Roberto Venturi.

Sul podio stava Roberto Abbado, che invece ha perfettamente capito che il colore cupissimo di quest’opera non deve affatto risolversi in uniforme grigiore ma è formato da una variegata gamma di sfumature, dal nero pece al nero dai riflessi vellutati e alle diverse gradazioni di grigio, con qualche lama di luce qua e là. Fin dal Preludio – in cui, al di là della eleganza old style del solo del violoncello, Verdi dimostra di saper perfettamente ottenere le tinte che voleva, con mezzi essenziali ma totalmente idonei alla drammaticità da lui cercata – Abbado non prende affatto sottogamba l’orchestrazione di quel giovanotto di Busseto e ne restituisce scrupolosamente le tinte tempestose. Quando necessario, sa essere irruento – splendide le strette delle cabalette – ma non pensa che tutto vada risolto con la facile scorciatoia dei tempi precipitosi, che sarebbero quelli autenticamente “verdiani”, secondo un’idea corriva della sua musica. Ma qua e là tempi più mossi non avrebbero nuociuto, perché qualche momento di stasi si è avvertito, anche in conseguenza della decisione in sé inappuntabile di rifarsi all’edizione critica, senza nessun taglio. Abbado è stato attentissimo all’orchestra, ma in Verdi l’orchestra non deve mai prevaricare le voci e quindi è stato altrettanto attento anche ai cantanti, tanto che certi tempi un po’ comodi sembravano scelti appositamente per venire incontro ad alcune difficoltà degli interpreti.

Nel ruolo della protagonista femminile cantava Roberta Mantegna, una giovane uscita dal progetto “Fabbrica” del Teatro dell’Opera, che ne ha seguito passo passo la crescita, prima sperimentandola in qualche replica e ora facendola debuttare in una “prima” importante e in ruolo tra i più temibili di Verdi. Amalia fu infatti scritta per Jenny Lind, detta l’“usignolo svedese”, che aveva acuti e gorgheggi da usignolo, ma  anche un carattere degno di un aquila, a giudicare dal vigore di certi “numeri” scritti per lei da Verdi. La Mantegna ha ripagato al fiducia accordatale e ha superato la prova a pieni voti, seppure sia stata saggiamente prudente nell’affrontare alcuni temibili acuti (la cavatina d’entrata) e i momenti più drammatici (il duetto con Francesco), forse perché intimidita da questo importante debutto.

Masnadieri opera di Roma
Foto di Yasuko Kageyama

Carlo era Stefano Secco, che ha indiscutibilmente una buona impostazione – che in passato gli ha permesso di affrontare ruoli impegnativi come Edgardo nella Lucia e Arturo nei Puritani – ma che non ha il peso vocale richiesto da un personaggio drammatico come Carlo, donde qualche momento di difficoltà. Il baritono Artur Rucinsky ha brillato nella pagina più bella dell’opera, la grande scena di Francesco all’inizio del quarto atto, in cui Francesco ha incubi e visioni, che sono la proiezione esterna delle sue paure e dei suoi rimorsi: evidenti le analogie col Macbeth, a cui Verdi e Maffei avevano lavorato insieme pochi mesi prima. Adeguato Riccardo Zanellato come Massimiliano, il quarto protagonista. Ottimi Saverio Fiore, Dario Russo e Pietro Picone nei tre ruoli comprimari.

Sala pianissima ma esito contrastato, con fischi sonori (e a mio giudizio un po’ ingenerosi) per il tenore e qualche dissenso anche per il regista e il suo staff.

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