Normalità di Pitchfork

I Deerhunter a Torino per la stagione di Musica 90

Recensione
pop
Musica 90 Torino
06 Aprile 2011
«Ma questo è rock [i]normale[/i]» è la prima reazione. I Deerhunter sono fra i gruppi più amati dalla Pitchfork generation. Ora, Pitchfork – bibbia indie dei tardi anni Zero – ha negli anni collezionato qualche “sola” di rilievo. Ma per un gruppo arrivato all’empireo di un 9.2 (9.2!!!?) per l’ultimo uscito [i]Halcyon Digest[/i], era lecito aspettarsi i fuochi d’artificio. Invece: una pesante sensazione di normalità. Come imprevedibilmente “normali” sono i quattro Deerhunter: in un’intervista prima del concerto agli amici di Radio 110, la radio dell’Università di Torino, raccontano come da copione di voler semplicemente “fare rock’n’roll”. A testimonianza degli intenti, arrivano sul palco su “Jailhouse Rock”, per saltare subito verso quel suono ben codificato da certo rock fra Novanta e Duemila, ben suonato, con piglio giusto, ma senza gli attesi scarti geniali. Tralasciando le attenuanti generiche di un live, si affaccia anche il sospetto che sul palco qualche nodo possa venire al pettine: le pregevoli stratificazioni soniche, perfettamente a fuoco su disco, appaiono decisamente più confuse, più noise che psichedeliche, più ammassate che sovrapposte. Il risultato è uno shoegaze occasionalmente melodico, molto pieno senza essere rumoroso o violento. “Il perfetto incontro fra i Pixies e i Radiohead” dice un autorevole e ottimista critico in sala. “Gli Strokes che imitano gli U2” per i pessimisti: la discriminante, e leggere le molte recensioni dei dischi dei Deerhunter in rete lo conferma, sta nel valore che si attribuisce all’uso consapevole di un sound collocato storicamente. Geniale sintesi (postmoderna) a partire da suoni e idee pienamente metabolizzate e rimesse in circolo oppure onesta rielaborazione nostalgica (postmoderna) di quello che si ascoltava da ragazzini? Se nella confortante prateria del già sentito l’unico criterio valido può essere quello emotivo – bè – qualche volta funziona, qualche volta no. A tratti comunque la band ritrova la grande spazializzazione psichedelica e una sua, personalissima, dimensione epica, come nella lunga coda finale (dopo i bis con la cult-song “Agoraphobia”). Qui Bradford Cox, leader scheletrico (è affetto da una patologia genetica), malinconico e nerd, si staglia finalmente come un guitar hero della triste generazione fine anni Zero.

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