Mosè, o la scoperta del Rossini serio 

A Colonia arriva per la prima volta Mosè in Egitto in un’allestimento di Lotte de Beer coprodotto con il Festival di Bregenz 

Mose in Egitto, Oper Koeln
Recensione
classica
Oper Köln, Colonia
Mosè in Egitto
13 Aprile 2018

Se a qualcosa servono gli anniversari è per fornire occasioni di sistemare i conti con qualche grande del passato e, soprattutto, per riparare a qualche clamorosa distrazione.

Stupisce che del Rossini serio ancora si conosca relativamente poco, fatto salvo qualche noto santuario, e non lo si conosca affatto nei paesi di lingua tedesca. E capita così che, grazie al centocinquantenario della morte del pesarese, il Mosè in Egitto arrivi per la prima volta a Colonia e venga presentato come una novità. Complice una logistica infelice dovuta all’esilio da numerose stagioni negli spazi antimusicali della Staatenhaus per inaccessibilità prolungata della sede naturale di Offenbachplatz (e chissà che l’anno offenbachiano 2019 non porti bene) ma soprattutto per sostanziale ignoranza della materia, non sono pochi i vuoti nella grande tribuna già alla seconda recita. Peccato perché lo sforzo produttivo è importante e perché, dopo il gelo iniziale, questo “strano” Rossini alla fine piace e conquista anche i più resistenti. 

Questo Mosé nella prima versione napoletana arriva dunque nella produzione condivisa con l’austriaco festival estivo di Bregenz firmata dall’olandese Lotte de Beer, giovane talento della scena europea e qui molto abile nel condurre il gioco scenico dosando in giusta misura la necessaria dose di spettacolarità e la leggerezza del gioco infantile. Quest’ultima dimensione si deve soprattutto agli interventi dei tre abili marionettisti/cameramen del collettivo Hotel Modern di Rotterdam (Pauline KalterArlene Hoornweg e Herman Helle) che animano dei teatrini di marionette – piuttosto mostruose individualmente ma quel che conta è la massa – e scenografie fatte di materiali di recupero (carta e cartone, fil di ferro, fiammiferi, ritagli di legno e via così) ingigantite attraverso le proiezioni live sullo schermo/sipario e sul grande poliedro/geoide che domina lo spazio destinato all’azione. Geoide a parte, lo spazio creato da Christof Hetzer è una grande piattaforma polifunzionale spoglia e coperta da un tappeto materico color sabbia. Le marionette astutamente forniscono funzionali effetti speciali a basso costo ma di impatto – le tenebre ma soprattutto la fuga attraverso il deserto e ancor di più la catastrofica traversata del Mar Rosso realizzate con secchiate d’acqua a immagini rallentate senza scomodare macchinosi apparati scenici – e di alleggerire i movimenti di scena, ispirati a una certa convenzionalità melodrammatica mitigata dagli interventi stranianti di tecnici e marionettisti demiurghi. Il risultato è un’originale “mise en abyme” della materia drammatica realizzata con intelligenza e senza svilire la grandiosità richiesta dall’azione. 

Di valore anche la realizzazione musicale affidata alla bacchetta di David Parry, rossiniano di rito britannico, un po’ tedioso nei recitativi e trattenuto talvolta sull’enfasi drammatica ma solenne come occorre nei grandi tableau corali e funzionale nell’accompagnamento delle voci. Soprattutto sa come dare rilievo al suono dell’orchestra, che è la sempre smagliante Gürzenich Orchester della casa, e degli smaglianti assoli (e vanno citati particolarmente clarinetto, flauto e ovviamente arpa). Lo spazio fieristico evidentemente non è tagliato per l’opera e la disposizione dell’orchestra sul lato della scena, obbligata dall’altezza priva di soffitta, sbilancia non poco gli equilibri sonori ma soprattutto crea qualche problema a coro e solisti in scena, che comunque se la cavano più che bene.

Mose in Egitto, Oper Koeln

Non tutte le voci hanno patente rossiniana certificata, ma sicuramente ce l’ha l’Osiride del tenore Anton Rositskiy dalla coloratura impeccabile e l’acuto “Nozzari” infallibile se non tendesse qua e là a strafare. Fa del suo meglio Mariangela Sicilia, Elcía (creato dalla Colbran), che non nasconde le numerose fragilità ma le maschera bene e soprattutto risolve con classe la grandiosa scena finale del secondo atto di “Oh acerbe! Oh immense pene!”. E anche Adriana Bastidas-Gamboa, Amaltea, si difende con onore e non manca il bersaglio di “La pace mia smarrita”, l’unico vero momento da protagonista. Ante Jerkunica è un Mosè sanguigno e imponente nel mezzo vocale come nel fisico, più spendibile come sanguigno capopopolo che come assorto profeta, mentre a Joshua Bloom, Faraone, gioverebbe una maggiore misura tanto nell’espressione vocale che in quella scenica, entrambe marcatamente sopra le righe. Fra i ruoli minori, si fa notare l’Aronne di Sunnyboy Dladla per la spigliatezza nell’uso del mezzo vocale. Possenti, come questo lavoro rossiniano impone, gli interventi del Coro dell’Oper Köln istruito da Andrew Ollivant

Superato un certo iniziale riserbo, il pubblico si scioglie alla fine in caldi applausi e chiamate.

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