Leonora e Florestano nell'inferno dei mass-media

Una messinscena generosamente compromessa con la realta': nel Fidelio che inaugura la sessantaseiesima edizione del Maggio Musicale Fiorentino al Teatro Comunale di Firenze, l'ambientazione e' in un lager moderno e alla fine i Nostri arrivano circondati da telecamere e microfoni-giraffa. E stavolta le cose di cui si parla sembrano troppo vicine per poter fischiare: applausi generosi per il regista Robert Carsen e per i suoi collaboratori. Poco efficace la direzione di Paavo Jaervi, al suo debutto nell'opera.

Recensione
classica
Maggio Musicale Fiorentino Firenze
Beethoven
11 Maggio 2003
Il tema eterno della liberta' e' tornato a vivere nel Fidelio beethoveniano, all'inaugurazione, in una chiave di moderata mondanita', della sessantaseiesima edizione del Maggio Musicale Fiorentino. Sul podio, l'estone Paavo Jaervi: un direttore dalla carriera essenzialmente sinfonica arrivato alla direzione d'opera, ci sembra, ancora sprovvisto di quelle capacita' di attenzione e di governo che il teatro musicale richiede. Ma piu' che a qualche incidente di troppo, alle sbavature riflettutesi inevitabilmente anche in una prova dell'orchestra meno felice del solito, ci riferiamo alla patina confusa della concertazione, ad una generale assenza di lucentezza e di tensione. I momenti migliori arrivavano casomai da certe pieghe piu' mozartiane o piu' contemplative della partitura, come il delicato quartetto Marzelline - Leonore - Rocco - Jaquino del primo atto. Stephen Gould e Elizabeth Whitehouse creano un Florestano e una Leonora complessivamente nobili, corretti e partecipi, ma, purtroppo, talora strozzati dall'eccitata espressivita', dalla tensione eroica verso gli acuti che Beethoven prescrive nel meraviglioso ardente slancio di luoghi come il duetto del riconoscimento "O namenlose Freude". Piacevole e simpatica la Marzelline di Rachel Harnisch, ma la vera sorpresa era Giorgio Surian come Rocco, attore consumato oltre che cantante, perfetto nel delineare le incertezze, le paure, le rozzezze morali ma anche, alla fine, il saper tirare un rigo, il sapersi sottrarre alla banalita' del male. Ma anche stavolta a Firenze le emozioni, nel bene e nel male, sono legate soprattutto alla messinscena. La scena unica e nuda (Radu Boruzescu), percorsa da bellissimi tagli di luce da prigioni del Piranesi, suggerisce volta a volta le alte pareti di un campo di concentramento e la profonda segreta di Florestano. I costumi di Miruna Boruzescu, le divise militari di Rocco e dei carcerieri, i pastrani eleganti dei ministri, possono essere Germania, Cile, tutti i tempi moderni che volete: anche per Beethoven si sa bene che quel remoto Seicento spagnolo voleva dire ieri, oggi e sempre. Si capisce presto che il regista Robert Carsen e' uno che il teatro lo sa fare, e il teatro arriva subito, con le delicate e ambigue trame di affetti del grande quartetto del primo atto - ed e' teatro elegante, questo - e con il parlato distorto da un microfono di Pizarro alla sua entrata, una voce che sembra uscire dall'altoparlante di un lager. Nel coro dei prigionieri il lividore della rappresentazione vuole forse smentire le fidenti e umanistiche tonalita' beethoveniane. Il finale e' un tuffo vorticoso nell'attualita', l'ingresso dalla platea di coro e figuranti, il bailamme umanitario-mediatico dei fronti di guerra, tra caschi e baschi azzurri e l'orgia di telecamere, fari e giraffe che riprendono in diretta l'arrivo di Don Fernando, l'arresto di Pizarro e la liberazione di Florestano. Deformazioni, irruzioni di realta', invasioni di campo, che a qualcuno sapranno anche di stantio, di inappropriato: ma ecco che questa folla CNN-Onu-Ong lascia la scena, e restano Leonora e Florestano, mentre lungo le pareti del lager i prigionieri sono ancora accasciati, ancora prigionieri, e le divise carcerarie a strisce, di nuovo ammucchiate al centro, aspettano altri corpi. Messaggio ricevuto, vero ? In contrasto con la rettilinea e limpida fede beethoveniana, ecco una messinscena che corre molti rischi, fra le sottolineature comiche e antiauliche della prima parte (Jaquino in bicicletta, l'affaccendato far ordine delle guardie che commenta molto originalmente la proterva marcetta di Pizarro), i simboli molto, forse troppo elementari (la lucerna di Leonora), quel finale un po' rivistaiolo con il coro tutto alla ribalta che prende l'imbeccata dai due sposi-eroi. Ma e' una regia generosa, compromessa, sporca di realta', da cui davvero non riusciamo a prendere le distanze. Ne' le ha prese il pubblico: contrariamente al trend fiorentino degli ultimi anni questa messinscena non e' stata fischiata, anzi.

Interpreti: Don Fernando: Stephen Milling; Don Pizarro: Gidon Saks; Florestan: Stephen Gould; Leonore (Fidelio): Elizabeth Whitehouse; Rocco: Giorgio Surian; Marzelline: Rachel Harnisch; Jaquino: Joerg Schneider; Primo Prigioniero: Istvan Bogati / Grant Richards (17, 21); Secondo Prigioniero: Alessandro Luongo / Lisandro Guinis (17, 21)

Regia: Robert Carsen; Regista assistente: Maria Lamont

Scene: Radu Boruzescu

Costumi: Miruna Boruzescu

Orchestra: Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

Direttore: Paavo Jaervi

Coro: Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Maestro Coro: José Luis Basso

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