L'energia di Torino

Il punto sui primi giorni del Torino Jazz Festival

Recensione
jazz
I due giorni del primo weekend cui ho potuto assistere sono certamente pochi per riflettere in modo ampio su un festival di grande impatto come Torino Jazz Festival, ma qualche indicazione interessante mi sembra di poterla condividere con voi, a partire dal piacere – tutto personale – di tornare nella città piemontese dopo molti anni e trovarvi un’energia e un feeling partecipativo (anche giovanile) che mi sembra non abbia molti rivali attualmente in Italia.

Un festival di queste dimensioni e di queste ambizioni (sono ambizioni in cui convivono esigenze politiche – anche strettamente elettorali come accade in queste settimane – e legittime aspirazioni culturali, strategie di partecipazione e di diffusione sul territorio e il tentativo di fare stare assieme eventi di grande impatto generalista con altre proposte di valore musicale nettamente più pregnante) porta inevitabilmente con sé un bel po’ di contraddizioni e di possibili tranelli, ma mi pare che il direttore Stefano Zenni abbia trovato una modalità felice di relazionarsi con la città, animato da un entusiasmo che, giustamente, dispensa sia alle proposte che più danno soddisfazioni in termini di visibilità, che a quelle che maggiormente lo “rappresentano” come curatore di concerti che rifuggono dall’ovvietà e dai trend.

Forse è impossibile provare a includere il Torino Jazz Festival in uno sguardo che ambisca a racchiudere tutto: di certo c’è una incredibile partecipazione a tutti gli eventi, anche quelli in orari meno consueti e anche quelli dove è richiesto un biglietto. La città risponde bene e suona quasi “sisifesca” la circostanza che il grande sforzo di questi giorni coincida sfortunatamente con la kemesse di Jazzahead a Brema, che fa incontrare tutta l’Europa del “jazz che conta” e che magari un po’ di cose italiane buone qui le avrebbe potute conoscere.

Annoto qui quindi, senza alcuna pretesa di completezza (tra l’altro improbabile data la quantità di cose, anche contemporanee che accadono in una giornata di Festival) qualche appunto su quanto ho potuto vedere e sentire.

In Piazza Castello ci sono passato poco e temo anche di avere sbagliato giorno, nel senso che – pur non amando particolarmente la fruizione così massiva di musiche come quelle in questione – ho la sensazione che il concerto di Roy Paci e Hindi Zahra (cui sono arrivato tardi) sia stato più pregnante e divertente dell’esibizione virtuosistica e un po’ muscolare del Volcan Trio di Gonzalo Rubalcaba – lo avevamo intervistato pochi giorni fa – con Horacio “El Negro” Hernandez, di cui ho colto la seconda parte.





Decisamente più attraente era quanto allestito in Piazza Vittorio, con un palco Fringe in cui ho goduto di qualche momento di gruppi come i Sudoku Killer di Caterina Palazzi o gli Andy Music, accomunati da atmosfere elettriche di chiara impronta rock. Ma anche con altri concerti nei locali e con tre “torri” in cui sono stati dislocati (con una certa scomodità di fruizione nonché volumi troppo ridotti) i Food con Gianluca Petrella o la cantautrice irlandese Wallis Bird (ma che c’entrava?).

Piazza Vittorio brulica di gente, così anche il lungo Po, sebbene con Murazzi ridimensionati. Dall’affascinante Circolo Esperia assisto all’esibizione sulla zattera del violinista Remi Crambes, tanto affascinante dal punto di vista ambientale quanto povera da quello musicale, per poi sgomitare tra i pubblico per qualche brano del trio di Rita Marcotulli.

Il leitmotif della movida Fringe mi sembra un po’ questo: grandissima partecipazione di gente, bellissima atmosfera, ma una quasi impossibilità di fruire al meglio dei concerti (a quello di Maria Pia De Vito non sono riuscito a entrare), a meno di non giungere con tantissimo anticipo e piazzarsi a mezzo metro dall’artista.

Ovviamente si gode molto meglio quello che viene programmato al chiuso: il sabato pomeriggio nell’Auditorium della Rai assisto al lavoro su Il persecutore di Cortàzar allestito dal quartetto di Francesco Cafiso con la voce recitante dell’attore Vinicio Marchioni. Non un brutto lavoro, anche se giocato su un registro abbastanza uniforme – con la lettura del testo fusa con le improvvisazioni di Cafiso & co. – che alla lunga sconta, più che la sensibilità dei singoli interpreti, una evidente carenza drammaturgica complessiva.



È nell’apparentemente scomodo orario delle 11 del mattino della domenica, al Teatro Vittoria, che si raggiunge il momento più alto e emozionante del weekend, con l’ottetto del batterista Cristiano Calcagnile dedicato alla musica di Don Cherry. Ho già dedicato un mio blog a questo progetto e non mi dilungherò molto, anche se sarei tentato di parlarne per ore, tanta è la ricchezza musicale e umana che ne emerge. Mi limito a dire che si tratta di uno dei gruppi più straordinari degli ultimi anni (e l’ovazione, commossa, che il pubblico ha tributato al concerto ne è la prova più tangibile) e che il fatto che abbia potuto avere visibilità in un festival di grande nome come Torino sia meritatissimo. In attesa del disco che dovrebbe uscire tra pochi mesi.



Piuttosto deludente ho trovato invece il lavoro allestito dal chitarrista Battista Lena, con proiezioni di opere di Pinot Gallizio. A un quintetto con Fulvio Sigurtà (tromba), Gabriele Mirabassi (clarinetto), Daniele Mencarelli (basso) e Stefano Tamborrino (batteria) si aggiungeva la banda Città di Alba Ars et Labor, tutti vestiti di bianco per consentire alle macchie di colore proiettate di spostarsi anche sui corpi.
La musica, quasi cinematografica – com’è nelle corde di Lena – mi è sembrata alla fine muoversi sempre in quel solco Rota-Piovani (per intendersi) che alterna momenti più rarefatti e malinconici alle onnipresenti marcette, tra colto e popolaresco immaginario, con qualche buon guizzo – e ottimi assoli – e tanta prevedibilità.

Memore della sera precedente arrivo al Magazzino sul Po con un certo anticipo e mi godo il set (un po’ tamarro, ma efficace e divertente) del gruppo Ifrikya del batterista Karim Ziad, mentre il fiume è spazzato da un’arietta fredda che troverò anche al mattino seguente, mentre sto per prendere il treno e non riesco a ascoltare il promettente quintetto Frontal di Simone Graziano.

Con tutti i distinguo del caso (continuo a pensare ad esempio che una sezione come il Fringe possa essere pensata molto meglio come volano di attivazione di esperienze significative anche sperimentali invece che cedere un po’ troppo alla tentazione bulimica, per quanto festosa, del bagno di folla e del carroarmatino in più nel Risiko cittadino) e con l’esperienza parziale di soli due giorni, mi pare che Torino goda comunque, come città e come jazz, di solida salute.

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