Le domande di Castellucci

Romeo Castellucci incontra Franz Schubert

Recensione
classica
Rappresentare l'irrappresentabile è proprio della musica, in particolare del Lied romantico, che canta drammi in cui la distinzione tra psiche del protagonista e realtà esterna diventa labile e che quindi non possono e non devono (o dovrebbero) essere portati in scena. Esattamente questo deve aver attratto Romeo Castellucci. Una delle chiavi del suo teatro è infatti rappresentare l'irrappresentabile. Ovviamente in "Schawenengesang D 744" - creato al festival d'Avignone nel 2013 e portato ora al Teatro India da Romaeuropa Festival - Castellucci non ha avuto l'ingenuità di raccontare in scena i Lieder di Schubert, come ha fatto Sellars con "Kafka Fragments" di Kurtag, e non ha nemmeno voluto darne una propria libera interpretazione, come ha fatto Kentridge con "Winterreise" dello stesso Schubert. Quel che Castellucci ha messo in scena non sono i Lieder di Schubert ma una cantante che canta i Lieder di Schubert. Su lei converge tutta l'attenzione. Sola al centro della scena, dentro un cerchio di luce, in un triste tailleur grigio secondo la moda degli anni cinquanta, l'esile e biondo soprano Kerstin Aveno canta dieci Lieder (non sono, tranne uno, quelli della raccolta postuma che ha dato il titolo allo spettacolo) e accompagna il canto con una gestualità che ricorda quella tipica dei cantanti. Ma in realtà ogni espressione del volto e ogni gesto delle braccia non sono quelli generici cui ricorrono i cantanti in questi casi, ma sono misurati e intensi, esprimono una sofferenza interiore inesprimibile, che aumenta di Lied in Lied. Sono Lieder notturni, dolenti e tragici, come spesso quelli di Schubert, ma anche Lieder apparentemente sereni, da cui trapela però un pessimismo leopardiano, e la loro alternanza traccia un itinerario senza speranza verso il buio, il nulla, l'annichilimento, la fine. Giunta agli ultimi Lieder, la cantante indietreggia insensibilmente, esce dal cono di luce, entrano nella penombra prima il volto, poi tutto il corpo. Canta gli ultimi Lieder di spalle, con voce sempre più esile, quasi un lamento, avanza lentamente verso il fondo del palcoscenico, come cercando di sparire nel buio, ma anche quella via di fuga le è preclusa da un muro, cade in ginocchio.

Fin qui Castellucci si è tenuto discretamente nell'ombra, si direbbe che abbia fatto poco o nulla, ma è proprio questa la parte in cui la sua regia è più forte e convincente. Personalmente l'ho preferita alla seconda parte, un'appendice interamente di sua ideazione, in cui la sua firma è più immediatamente riconoscibile. Entra in scena un'attrice, Valérie Dréville, che recita frasi e spezzoni di frasi in tedesco, che restano nell'orbita schubertiana, poi esplode in accuse cariche di disprezzo e odio contro il pubblico. "Chi vi ha fatto entrare?". "Cosa volete vedere?". L'affronto al pubblico è un rito vecchio di cinquant'anni, ma fa ancora il suo effetto. La sgradevolezza di questo finale viene a turbare la soddisfazione leggermente sadica (o masochistica?) che si era ricavata dall'assaporare il dolore di Schubert e della sua interprete e fa sì che ci si chieda cosa spinga ad andare ad ascoltare questi Lieder tragici e senza speranza e perché se ne ricavi un piacere estetico. Non è facile rispondersi. Castellucci pone domande più che dare risposte, insinua dubbi più che emettere sentenze.

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