Laus Polyphoniae ultimo atto

Anversa:Conclusa l’esegesi dell’amore

Recensione
classica
Amore sacro e amore profano si sono fronteggiati, incontrati e accorpati costantemente nel programma di Laus Polyphoniae. Negli ultimi tre giorni del Festival è divenuto via via più chiaro il senso del titolo scelto per questa edizione dal suo direttore artistico Bart Demuyt, “Adoratio. Santi, martiri e amanti”, fino a poterne ascoltare gli estremi opposti. Ancora un richiamo al Cantico dei Cantici nel concerto dell’ensemble vocale Cinquecento dedicato alla Missa Ego flos campi di Jacobus Vaet, maestro di cappella dell’arciduca Massimiliano d’Austria, costruita sul mottetto omonimo di Clemens non Papa. La maestria contrappuntistica della scuola franco-fiamminga è risaltata anche nel secondo concerto dello Huelgas Ensemble, dedicato alla Adorazione della Croce, all’interno del quale è stato possibile ascoltare anche tre diverse intonazioni dello Stabat Mater: quella dolente di Orlando di Lasso, quella anonima dal sapore “popolare” contenuta in un manoscritto di Montecassino, e il capolavoro assoluto di Josquin Desprez, grazie alla magistrale disposizione dei differenti piani sonori e dei timbri vocali operata da Paul Van Nevel. La qualità e l’originalità dello Stabat di Josquin deriva anche dal fatto che non è basato sul tenor monodico della sequenza, ma su quello di una chanson di Binchois, Comme femme desconfortée, secondo una pratica ricca di interessanti soluzioni musicali, anche se poco ortodossa dal punto di vista della cultura ecclesiastica. Due successivi concerti, dedicati all’amor profano cantato nella polifonia del Trecento hanno riscaldato il cuore del pubblico del Festival di Anversa, quello del Sollazzo Ensemble con musiche della tarda Ars Nova prevalentemente italiana, e quello dell’Orlando Consort dedicato a Machaut e alle chanson contenute nel suo Livre du voir dit. Questo roman epistolare nel quale sono incorporate notazioni musicali e miniature, per il suo esemplare valore di insegnamento sulla nobiltà dell’amor cortese e dell’arte poetica e musicale può certamente essere considerato uno dei più significativi emblemi di questa edizione del Festival.

Ma a far da contraltare alla mistica dell’amore ci ha pensato l’ensemble Micrologus, con un programma musicale “appetitoso” e sfrontato dal quale sono emerse le radici umbre del gruppo, non quelle monastiche e spirituali, ma quelle del piacere conviviale della buona tavola al confine tra musica colta e “popolare”. Partendo da un canto cumulativo presente in un codice fiorentino, Che mangerà la sposa, combinato con uno analogo del canzoniere della tradizione orale corsa, Patrizia Bovi ha costruito un percorso festoso e irriverente, assemblando strambotti, canti carnascialeschi e altre composizioni nelle quali si riflettono tratti della cultura popolare stilizzata sia da autori anonimi della seconda metà del Quattrocento, che noti, come Cara, Tromboncino e Compère. Attraverso i loro testi prosaici e licenziosi il concerto si è sviluppato come se fosse un racconto fatto da diversi personaggi, le fantinelle da maritare, il cuoco, i parenti, i mugnai fino ad arrivare alla sposa, con un ricco compendio di allusioni e doppi sensi di natura erotica che facevano parte degli intrattenimenti delle corti italiane. I versi di uno di questi canti, Berricuocoli e confortini, è di Lorenzo il Magnifico, e la sua melodia è stata desunta da una delle laudi spirituali del monaco domenicano Serafino Razzi, che rivestì di testi devozionali le melodie inneggianti ai piaceri della vita terrena della cultura fiorentina del suo tempo.

La giornata conclusiva del Festival è iniziata con il concerto degli allievi della Summer school dedicata alla polifonia franco-fiamminga curata da tre cantanti dell’ensemble Cappella Pratensis, Stratton Bull, Pieter Stas e Andrew Hallock, con il contributo di Valerie Horst, specialista della semiografia delle notazioni antiche, e Niels Berentsen, studioso delle pratiche di improvvisazione nella polifonia medievale e rinascimentale. Naturalmente l’interessante programma basato su composizioni dei principali maestri oltremontani è stato intonato seguendo le notazioni originali, senza l’ausilio delle trascrizioni moderne, e ha rappresentato una preziosa esperienza formativa per i suoi partecipanti, alla fine felici ma quasi sorpresi di poter essere riusciti nell’impresa. Nel pomeriggio un numero ristretto di spettatori ha potuto assistere al concerto dell’ensemble Profeti della Quinta nella Casa Museo di Rubens, dedicato alla interessante figura di Salomone Rossi, il compositore attivo alla corte di Mantova autore di canzonette, madrigali, e canti liturgici polifonici in ebraico su testi biblici unici nel loro genere. La degna conclusione di questa affascinante edizione si è svolta nella Chiesa di San Paolo, dove il Chœur de Chambre de Namur e il gruppo strumentale Clématis Ensemble hanno eseguito uno splendido programma dedicato ad Orlando di Lasso, definito dal direttore Leonardo Garcia Alarcón “il Mozart del Cinquecento”. Dopo il Magnificat super Ancor che col partire di Cipriano, e la Missa Susanne un jour, altri due esempi di interpolazione tra sacro e profano, nella stessa chiesa dove Stile Antico aveva eseguito il ciclo palestriniano, sono risuonati di nuovo i versi del Cantico dei Cantici, fonte di ispirazione di mottetti a cinque, sei e otto voci scritti da Lasso in differenti momenti della sua vita tra il 1555 e il 1585.

Ripensando a tutte le suggestioni offerte dal tema di questo intenso percorso, in questa esegesi dell’amore spinto fino alla adorazione è mancato il fondamento della lirica trovadorica. Ce n’è stato solo un accenno nel concerto del Tiburtina Ensemble, con un canto di Raimbaut de Vaqueiras e l’aggiunta di un paio di liriche dei trovieri Conon de Bethune e Thibaut de Champagne, ma ci sarebbe voluto un intero programma dedicato agli inventori della canzone d’amore, con in testa una cançó di Folquet de Marselh, En chantan m’aven a membrar, il cui inizio si potrebbe parafrasare così: “Cantando mi rammento di ciò che volevo dimenticare cantando, ché si canta per dimenticare il dolore e il mal d’amore, ma quanto più canto, tanto più me ne ricordo...”.

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