L'anno di Andrea Chénier

All'Opera di Roma l'opera rimessa a nuovo, con la regia di Marco Bellocchio

Foto Yasuko Kageyama
Foto Yasuko Kageyama
Recensione
classica
Teatro dell'Opera di Roma Roma
Umberto Giordano
21 Aprile 2017

Questo sembrerebbe proprio l'anno dell'Andrea Chénier: nelle scorse settimane il divo Jonas Kaufmann l'ha cantato a Monaco di Baviera e Parigi (e prossimamente lo porterà a Barcellona e Vienna), a dicembre inaugurerà la stagione della Scala e adesso è in scena a Roma – senza contare la recentissima riapertura del teatro di Foggia, dove il capolavoro del foggiano Umberto Giordano era praticamente d'obbligo. Quest'opera in realtà non è mai uscita dal repertorio, tuttavia è vero che proprio adesso sembra scoccata l'ora di riconsiderarla anche dal punto di vista critico, sgombrando il campo dai pregiudizi contro il verismo, cui oltretutto lo Chénier non appartiene in toto, pur essendogli contiguo. È quel che ha fatto – non a parole ma con i fatti – Roberto Abbado. Che, prescindendo dal pesante fardello della tradizione, l'ha rimesso a nuovo e ha portato alla luce un colorito orchestrale fatto principalmente di piccole pennellate, agili, delicate, precise. Quest'orchestra tutt'altro che gonfia e pletorica è il motore di una drammaturgia musicale concisa e efficace, che non si ritrae davanti alle grandi passioni – qualcuno potrebbe definirlo sentimentalismo, ma va accettato come il marchio di un'epoca e d'altronde cattura anche gli ascoltatori del ventunesimo secolo – ma non per questo cade nella retorica, tranne forse nelle ultime battute del duetto finale dei due protagonisti, che personalmente ho sempre trovato un po' vuote e retoriche. L'orchestra diventa così protagonista di quest'opera, alla pari con le voci. Il tenore, si sa, ha alcune delle più belle melodie dell'opera italiana, cosa che per anni la critica non ha perdonato a Giordano. Un tempo qualche tenore le cantava a pieni polmoni, ma queste melodie sono estatiche, sognanti, sfumate, anche ombrose; sono insomma le melodie di un poeta (pre)romantico, non le sparate di un retore. Gregory Kunde le ha cantate con una linea musicale perfetta per fraseggio, varietà di dinamiche attentamente dosate, omogeneità di registri. Il timbro non è particolarmente fascinoso, ma non si può avere tutto. Sulla stessa linea il Gérard di Roberto Frontali, commosso in "Son sessant'anni, o vecchio, che tu servi", introverso, dubbioso e scontento di se stesso in "Nemico della patria". Maria José Siri era più estroversa e impulsiva, conformemente a un personaggio giovane e appassionato come Maddalena, che non per nulla è uno dei suoi cavalli di battaglia; ma talvolta faticava a passare l'orchestra – sebbene, come si è detto, Abbado ne amministrasse con attenzione il volume – e alcuni acuti erano un po' metallici. Di ottimo livello gli interpreti dei personaggi minori: Elena Zilio, ancora una volta insuperabile Madelon, Natascha Petrinsky, una Bersi di lusso, e poi Duccio Dal Monte, Anna Malavasi e tutti gli altri. Abbiamo lasciato per ultima la regia di Marco Bellocchio, perché non c'è molto da dire in proposito: aveva promesso una regia tradizionale e così è stato. Ha amministrato l'azione senza quasi far avvertire la sua presenza, tuttavia ha eliminato totalmente la retorica, ha sfrondato il bozzettismo di alcuni personaggi minori, ha ridotto le comparse e eliminato molte controscene, isolando i protagonisti. Nella direzione di uno sfoltimento del colore locale andavano anche le scene di Gianni Carluccio, che – dopo un primo quadro che assomigliava molto ai bozzetti delle edizioni di alcuni decenni fa – ha ambientato l'opera in scene fuori del tempo, grandiose ma essenziali e geometriche, probabilmente ispirate ai progetti di Boullée, il visionario e utopico architetto dell'illuminismo. Il pubblico ha ringraziato con calore tutti gli artefici dello spettacolo.

Note: Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro La Fenice di Venezia

Interpreti: Gregory Kunde, Roberto Frontali, Maria José Siri, Natascha Petrinsky, Anna Malavasi, Elena Zilio, Duccio Dal Monte, Graziano Dallavalle, Gevorg Hakobyan, Luca Casalin, Andrea Giovannini, Timofei Baranov

Regia: Marco Bellocchio

Scene: Gianni Carluccio

Costumi: Daria Calvelli

Coreografo: Massimiliano Volpini

Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma

Direttore: Roberto Abbado

Coro: Coro del Teatro dell'Opera di Roma

Maestro Coro: Roberto Gabbiani

Luci: Gianni Carluccio

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