La festa dell'improvvisazione

Trent'anni di Music Unlimited a Wels, in Austria: reportage dall'edizione 2016

Recensione
jazz

Un festival è anche e soprattutto una famiglia, una comunità. Un formidabile aggregatore di esistenze, uno spazio di confronto e condivisione. Che ha bisogno di cure per crescere, di tempo per mettere radici. Nel caso di Music Unlimited, trent'anni di passione e dedizione assoluta. Un impegno amorevole e costante che ha trasformato Wels, sonnacchiosa cittadina austriaca alle porte di Vienna, in una delle capitali mondiali della musica improvvisata; un porto sicuro per capitani coraggiosi, alchimisti e avventurieri, sperimentatori di ogni età e incorreggibili visionari. Accorsi da ogni latitudine anche per l'edizione 2016, doverosamente dedicata alle celebrazioni per i tre decenni di vita del festival.

Un'edizione sfiziosa e avvincente, che tra gli immancabili alti e gli inevitabili bassi, ha offerto una manciata di esibizioni memorabili. A partire da quella che ha visto duettare il veterano Fred Frith e il cappellaio matto Chrisfof Kurzmann, uomo di musica come pochi. Diavolerie assortite, chitarra elettrica, campioni, loop, gingilli e tanto, tantissimo cuore: un commovente saggio di concisione e delicatezza, un viaggio da brividi al centro di un universo musicale onirico ed etereo. Improvvisazione senza sconti, certo, esitanti schemi ritmici, astrazioni e stratificazioni di rumori e di riverberi, ma a tracciare il filo rosso dell'ora scarsa di musica è stata soprattutto la voce di Kurzmann. Straziante e dolcissima nell'infilare tra le pieghe del flusso la fantasmagorica "No More Songs" di Phil Ochs, la sognante "Alifib" di Robert Wyatt e "Think Small" dei neozelandesi Tall Dwarfs. Occhi lucidi e applausi scroscianti. Da emozioni forti anche l'incontro-scontro tra la chitarra maleducata di Otomo Yoshihide e la batteria di Hiroshi Yamazaki, forse il più fedele tra i pochi e selezionatissimi scudieri del padre dispotico del free giapponese: Masayuki Takayanagi; maestro di Otomo e chitarrista dell'impossibile il cui spirito è stato rievocato dallo sferragliare anarcoide delle sei corde e dalle pulsazioni ipnotiche di pelli, piatti e tamburi. In un gioco di agganci, fratture e rimandi perfettamente bilanciato, meravigliosamente a fuoco. Livelli altissimi.

Un paio di gradini sotto il Nu Ensemble di Mats Gustafsson, impegnato nell'omaggio a Frank Zappa già presentato a Sant'Anna Arresi lo scorso agosto. Riuscitissimo nei passaggi più densi e strutturati, con la batteria del vichingo Paal Nilssen-Love (nonostante le stampelle e una gamba ingessata), le improvvise accelerazioni del basso elettrico di Ingebrigt Håker Flaten e le acrobazie della voce di Mariam Wallentin a dettare i tempi dei crescendo e delle deflagrazioni (esaltante un lungo scambio di vedute tra la cantante della Fire! Orchestra e il sax baritono di Gustafsson). Un po' meno convincente e prolisso, come già era capitato a Mulhouse in occasione del tributo a Little Richard, nei momenti dedicati all'improvvisazione più o meno collettiva, con ricadute sulla tensione e sull'efficacia della narrazione. Promosso con riserva, anche se viene il dubbio che sia una questione di approccio volutamente scomposto e non di dettagli sui quali lavorare.

Poco o nulla da aggiustare invece in casa Jooklo Duo. La formula messa a punto da Virginia Genta (tastiere, elettronica, pianoforte e sassofoni) e David Vanzan (batteria e percussioni) funziona alla grande. Free sporco, brutto e cattivo, di quello che non fa sconti e nemmeno prigionieri; una finestra spalancata sugli anni Sessanta più avventurosi e meno allineati, uno schiaffone a mano aperta salutare e corroborante. Della partita per l'occasione anche Mette Rasmussen, al sax contralto, e Guro Skumsnes Moe, bassista e contrabbassista d'assalto a metà strada tra un angelo biondo e un demone ancestrale: un tocco di ferocia scandinava che ha reso il sabba ancora più imprevedibile e avvincente.

Ultima menzione di merito per l'incontro senza rete e senza fili tra Ken Vandermark, Nate Wooley, Fred Frith e Lotte Anker. Improvvisazione nella sua accezione più temeraria: suono, relazioni, rispetto e rigore. Con l'inchino a John Carter e Bobby Bradford del clarinetto di Vandermark e della tromba di Wooley a segnare una delle vette della tre giorni.

Più indietro il resto del gruppo. Cose buone a momenti da Lasse Marhaug (elettronica), C. Spencer Yeh (violino) e Okkyung Lee (violoncello): intensi, abrasivi ma scostanti. Più noiosi che altro Bob Ostertag (elettronica), Jon Rose (violino) e Gerry Hemingway (batteria), mentre nemmeno la presenza di due fuoriclasse come John Edwards (contrabbasso) e Mark Sanders (batteria) è riuscita a far decollare la performance del quartetto completato dalla voce di Maggie Nicols e dal trombone di Sarah Gail Brand. Tanto impeccabili quanto prevedibili le visioni elettroacustiche di Andrea Neumann (elettronica), Axel Dörner (tromba) e Sven-Åke Johansson (batteria); estenuante il set proposto da Carla Kihlstedt (voce), Bob Ostertag (elettronica), Zeena Parkins (arpa elettrica) e Magda Mayas (pianoforte). Bocciatura sonora, infine, per il quartetto Antihouse della sassofonista tedesca, ma ormai newyorchese a tutti gli effetti, Ingrid Laubrock: un vorrei ma non posso in salsa fastidiosamente brooklyniana che ha finito per ingoiare musicisti del calibro di Mary Halvorson, Kris Davis e Tom Raney. Irritante.

Discorso a parte per Peter Brötzmann, arrivato a Wels in compagnia della texana Heather Leigh, virtuosa della steel guitar. Discorso a parte perché il duo, in sé e per sé, non ha proprio incantato: sbagliati i volumi, ossessivo e invadente l'arpeggio continuo della Leigh, sonnacchioso e svogliato Brötzmann. Che però ha regalato un paio di sventagliate delle sue, ricordando urbi et orbi che gli anni passano, le generazioni si danno il cambio, ma là fuori di Brötzmann ce n'è sempre e solo uno. Chiusura festante con gli olandesi The Ex, il punk fatto a coerenza, e la loro colorata giostra etiope. Su e giù dal palco danzatori, giocolieri, equilibristi, contorsionisti, Zerfu Demissie e la sua begena (una sorta di lira amplificata), Melaku Belay alla testa del progetto Bendika: un rito di catarsi collettiva gioioso e travolgente, la sintesi perfetta di tre giorni di musica, vita e resistenza.

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