Il saggio della montagna

Le parole di Bon Iver

Recensione
pop
Esce in questi giorni il secondo disco di Justin Vernon, più noto come Bon Iver. Questo secondo lavoro esce a distanza di tre anni dall’esordio. Sono estremamente spaventato da questa uscita discografica: ho paura di restare deluso, ho paura di non ritrovare tutta quella verità che c’è nel suo primo disco, ho paura che Bon Iver alla fine sia come tutti gli altri. La paura, si sa, è spesso irrazionale. Proverò comunque a spiegarvi perché sono così spaventato.
La leggenda vuole che dopo lo scioglimento della sua vecchia band e la fine di un amore (ovvio!), il buon Justin si sia ritirato in montagna, a passare l’inverno e a riflettere sulla caducità delle cose umane. Siamo grosso modo alla fine del 2006. Tra una riflessione e un’altra registra un disco, “For Emma long ago”. Bon Iver, si narra sempre nelle cronache, registra ogni singola pista, chitarre, percussioni e le molte voci sovrapposte e armonizzate che diventano la sua cifra stilistica più celebre. Il suo set di registrazione è composto da un microfono dinamico Sm 57, un paio di chitarre e qualche pezzo di batteria. “For Emma” esce per una piccola indie-label nel 2008 e diventa un caso. È per molte riviste americane e inglesi (Q, Pitchfork, Mojo a altre) uno dei dischi migliori dell’anno, ma entra pure nelle varie classifiche delle migliori uscite degli anni 2000.
Personalmente reputo “For Emma” uno dei dischi più sconvolgenti degli ultimi vent’anni. In un certo senso è un disco che mi ha cambiato la vita. Fondamentalmente mi sconvolge pensare che con quattro accordi strimpellati su una chitarra e una voce che ci canta sopra ci si possa emozionare ancora così tanto. Mi sconvolge restare ipnotizzato da una canzone di sei minuti come “Re: Stacks”, che chiude il disco, e ritrovarmi ad ascoltarla per decine di volte di seguito senza mai stancarmi. Mi sconvolge vedere che nelle clip su YouTube il pubblico è ipnotizzato come me, muto e immobile come quando si ascolta una confidenza da uno sconosciuto.
«There's a black crow - mi dice Bon Iver - sitting across from me / His wiry legs are crossed / He is dangling my keys, he even fakes a toss / Whatever could it be / That has brought me to this loss?». Lo dice a me, me lo sta sussurrando in un orecchio. Capite la differenza? Justin Vernon non è un imbonitore. Magari lo sarà col prossimo disco, ma di sicuro non lo era, non lo è stato. In “Re: Stacks” non si sta crogiolando nelle sue miserie, nelle sue paure, nei suoi fallimenti. Me le sta raccontando come le racconterebbe a qualcuno conosciuto al bancone del bar. Non si sta beando della sua solitudine montanara, qui ha davvero la schiena schiacciata dal peso di mille cose che non hanno peso, come i ricordi, come le rovine che cerca di scrollarsi di dosso:
«On your back with your racks as the stacks are your load
/ In the back and the racks and the stacks of your load
/ In the back with your racks and you’re un-stacking your load». Questo non è il suono di un uomo nuovo, dice alla fine. Come dire, i tuoi fallimenti te li porti dietro. Sul canale YouTube di Bon Iver è già possibile ascoltare una canzone del nuovo disco. Si intitola “Calgary”. Io ancora non l’ho ascoltata.


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