Hardrada: il risorgere in jazz di un re vichingo

Si è concluso Dolomiti Ski Jazz con la prima italiana del giovane e promettente Hardrada Quartet

Hardrada Quartet, Dolomiti Ski Jazz
Foto di Virginia e Nicola Malaguti
Recensione
jazz
Dolomiti Ski Jazz, Cavalese
Hardrada Quartet
16 Marzo 2018

“Musica nera su sfondo bianco” era il sottotitolo di Dolomiti Ski Jazz. È risultata quindi perfettamente in tema, al Rifugio Valbona, la voce tenebrosa di Shanna Waterstown, una real blues woman, nata in Florida ma residente a Parigi. In un resoconto in pillole della ventunesima edizione del festival della Val di Fiemme è inoltre il caso di sottolineare la classe stagionata di Scott Hamilton: un’eleganza certo raffinata la sua, ma da sempre démodé per scelta.

Altrettanto da ribadire sono la compattezza e la forte identità del Francesco Bearzatti Tinissima Quartet, che ha offerto un concerto di chiusura esaltante come prevedibile; se non ne parliamo più approfonditamente è perché la suite su Woody Guthrie è già stata recensita più volte (ad esempio qui).

È preferibile allora soffermarsi sulla prima italiana di una formazione giovane e promettente come l’Hardrada Quartet, composto dal pianista francese Antoine Spranger, dal sassofonista tedesco Daniel Buch,  dal contrabbassista danese Adrien Christensen e dal batterista trentino Daniele Patton. Ad eccezione del pianista, gli altri tre si sono incontrati nel master biennale “Nomazz” (Nordic Master in Jazz) promosso da tre importanti istituzioni musicali: la Royal Danish Academy of Music, il Royal College of Music di Stoccolma e la Sibelius Academy di Helsinki. Il curioso nome che il quartetto paritario ha scelto si riferisce a Harald Hardrade, che nell’undicesimo secolo, prima di diventare l’ultimo re vichingo della Norvegia, aveva affrontato scorribande belliche in mezza Europa, raggiungendo Costantinopoli e la Sicilia. Parimenti, i quattro motivati jazzisti intendono invadere pacificamente l’Europa al suono del loro modern jazz.

Al Wine Bar dell’Hotel Bellavista di Cavalese, in condizioni d’ascolto in cui la batteria era troppo esposta mentre era difficile percepire il fraseggio del pianoforte, si è dipanato un repertorio di original dei vari membri della formazione e di loro colleghi coetanei, oltre, con scelta oculata, a un brano di Kenny Wheeler ed uno di Joe Henderson. Gli impianti melodici e dinamici, sapientemente studiati, si sono protratti con logica conseguente, raggiungendo evoluzioni emotive opportunamente calibrate. Buch al baritono e al soprano ha dimostrato di possedere uno spiccato senso narrativo, perennemente attento a uno sviluppo attinente del tema melodico, con impennate di notevole energia. Il pianista francese, per quanto si è potuto giudicare, era invece più interessato a linee introspettive e avvolgenti, lentamente tornite. Il procedere pacato e il sound rotondo del contrabbassista hanno fornito un sostegno rassicurante, mentre l’azione variata e incalzante di Patton sembrava racchiudere in una sintesi personale molti moduli del drumming moderno. C’è da augurarsi che questo quartetto abbia la possibilità di consolidarsi, di incidere e di ripresentarsi sempre più coeso all’attenzione internazionale.

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