Elia nella Terra Desolata

A Firenze l'Elias di Mendelssohn coprodotto dal Teatro del Maggio con il festival giapponese Saito Kinen, in un'insolita forma scenica, con José van Dam protagonista, nell'allestimento di Jean Kalman, una Terra Desolata dove si combattono idolatria e monoteismo. Funziona ? forse non del tutto, ma sul podio c'è Seiji Ozawa per darci un Mendelssohn vibrante come mai

Recensione
classica
Teatro Comunale di Firenze Firenze
Felix Mendelssohn Bartholdy
15 Novembre 2006
Ci si chiederebbe il perché, in generale, della messinscena di un oratorio (avventura peraltro tentata, o almeno sognata, dai grandi registi, da Gordon Craig a Ljubimov), anche di un oratorio romantico da concerto, come l'Elias di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Ma queste riserve passano in secondo piano se sul podio c'è Seiji Ozawa. Con la sua capacità unica di rendere palpitante tutto quel che succede nella musica, tutto nutrito e vibrante anche nella leggerezza, il settantunenne direttore giapponese ci ha aperto le orecchie sull'inquietudine, sulla ricchezza, sul pathos romantico che scorre sotto il ruscellare, gli azzurri, lo slancio alato della musica di Mendelssohn, anche quando – era anzi questo equilibrio fra sensibilità romantica e austerità del modello uno dei dati più interessanti della concertazione – in ossequio al genere e all'argomento affronta la coralità monumentale alla Haendel (ma con Ozawa mai massiccia), il contrappunto, le armonie antiche. Ma l'Elias è e resta un oratorio. Jean Kalman inventa un tragico presepe-Waste Land di montagne accartocciate ma paurosamente vive (si ergono, si schiacciano), la pioggia divina è una nuvolaglia scintillante di una doratura quasi da discoteca, grondante innaturali goccioloni; ma il coro, benché in costume (non biblico, piuttosto gabbanelle alla Chagall), se ne sta lì, con la parte in mano. Si resta assai perplessi d'acchito, insomma; poi la simbologia in qualche modo si fonde, magari proprio in virtù dei suoi tratti più bizzarri o inquietanti, quelli che forse invitano a vedere, per dir così, il lato oscuro del monoteismo, la sua feroce inflessibilità. Nel cast si segnala la vibrante Annette Dasch e campeggia un José van Dam certo oramai indebolito, ma sempre grande attore nel trasmettere la solitudine del giusto.

Regia: Jean Kalman

Scene: Jean Kalman

Direttore: Seiji Ozawa

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