Ebo Taylor felice

Il chitarrista ghanese porta a Novara Jazz la sua versione dell'afrobeat

foto j.t.
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Recensione
world
Novara Jazz Novara
28 Maggio 2011
Con una tenerezza che uno non si aspetterebbe in un settanticinquenne maestro dell’afrobeat, Ebo Taylor, sceso dal palco, si aggira nella sala a stringere le mani dei presenti a fine concerto. Spostato dalla piazza all’auditorium del Conservatorio per l’addensarsi di scure nubi preelettorali sul cielo novarese, il secondo appuntamento italiano del densissimo tour del chitarrista ghanese è una festa per le orecchie, resa anche più intensa dall’imprevista e più intima location. Taylor è un buon esempio delle traiettorie della world music: formazione da ragazzo di buona famiglia, nei primi Sessanta finisce a Londra con una borsa di studio nello stesso periodo in cui Fela Kuti si trova lì per lo stesso motivo. Fela è di due anni più giovane ma – spiega Taylor nella bella retrospettiva “Life Stories” dedicatagli dalla Strut – più avanti nello studio, tanto da insegnargli qualche «trucchetto». L’afrobeat di Taylor – uno «highlife saturato di jazz» nelle sue intenzioni – non è dunque figlio di quello di Fela, ma fratello minore, con dignità e freschezza autonoma. I due se ne tornano ai rispettivi Paesi, con nuove idee e nuovi accordi. Fela si sa che fine fa. Taylor rimane tutto sommato sommerso fino a un paio di anni fa, quando nel 2010 due star hip hop (Usher e Ludacris) si trovano a campionare un suo brano, regalandogli una vetrina potenzialmente più importante di quella delle raccolte Strut per nostalgici e - chiosa Taylor nel presentare “Heaven” , il pezzo in questione - «un sacco di soldi». Il tour europeo lo vede così, un settantacinquenne felice come un bambino. La band, Afrobeat Academy, con cui ha inciso il recente “Love and Death”, è una formazione berlinese equamente divisa fra oriundi ghanesi e tedeschi, che suona un afrobeat energico e pulito, sostenuto da un’eccellente sezione ritmica e dal timbro caldo dei fiati. Un afrobeat “passepartout”, non troppo connotato geograficamente ma ricollocato come genere musicale autonomo, con le sue regole e i suoi suoni. Il repertorio, imperniato sul nuovo disco e sui vecchi classici opportunamente omogeneizzati nel sound lascia all’Academy ampio spazio. Curiosamente discreti gli interventi di chitarra di Taylor, intriganti per tocco e suono: saturo e sporco, con fraseggi jazzy continuamente spezzati, o su riff quasi rock’n’ roll. Due cose non riescono al chitarrista: far battere le mani a tempo al pubblico (ma è una vecchia battaglia persa), e farlo alzare in massa per ballare (prevale un sabaudo contegno in parte della platea), ma sembra non basti a guastargli l'umore.

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