Bergamo Jazz 2 | Il jazz non è morto

Da Nate Wooley all'incontro (inedito) fra Dave Douglas e Tom Harrell

Recensione
jazz
Piove a secchiate su Bergamo. Piove sulla città e sulla testa di chi ha lasciato a casa l'ombrello. La seconda giornata di festival si apre nel pomeriggio con la più attesa delle esibizioni (almeno da chi scrive). Ospite dell'auditorium di Piazza della Libertà, nella pancia della meravigliosa Casa del Fascio, il quintetto di Nate Wooley. La più attesa delle esibizioni perché arriva in scia a (Sit In) The Throne of Friendship, uno dei dischi più meritatamente celebrati del 2013. Completano la formazione Josh Sinton al clarinetto basso, Harris Eisenstadt alla batteria, Eivind Opsvik al contrabbasso e Matt Moran al vibrafono, compagni di viaggio del barbuto trombettista da almeno quattro anni. Una lunga frequentazione che è servita per affinare le dinamiche e oliare gli ingranaggi. Il quintetto è una macchina perfetta. Con tagliente lucidità vengono dissezionate un paio di composizioni tratte dall'ultima fatica. È un jazz austero e burbero quello snocciolato da Wooley e sodali, che si divertono a cancellare le tracce del loro passaggio e quasi nulla concedono a chi ascolta. Ma una volta entrati in sintonia con il quintetto, una volta captate le giuste frequenze, è impossibile restare indifferenti. Dietro la maschera del glaciale rigore, la musica palpita e scalcia. La tromba di Wooley, carnale e sanguigna, distilla emozioni. Un duetto con il clarinetto basso di Sinton regala sprazzi del miglior Ayler, evocando i fantasmi di Eric Dolphy e Lester Bowie; una ballad scritta pensando agli anni dell'infanzia commuove fino alle lacrime; c'è spazio persino per un brano a firma del vituperato Wynton Marsalis, ovviamente ripulito e levigato fino a renderlo perfettamente cristallino («suonarlo negli Stati Uniti – commenta ironico Wooley – ci creerebbe un sacco di problemi»). Il pubblico ascolta, riflette. Molti cullano con lo sguardo l'uscita più vicina. Ma chi applaude lo fa con trasporto e convinzione. Sarà difficile ascoltare di meglio da qui al sipario sul festival.

In serata si torna al Donizetti. C'è il pienone in sala quando Gianluca Petrella prende possesso del palco. Il Bidone è l'omaggio del trombonista pugliese alle musiche di Nino Rota (e di rimando al colorato universo felliniano). Un omaggio sentito, anima e cuore. Petrella ci crede, si affanna, cerca il pianoforte di Giovanni Guidi, chiede alla sezione ritmica – Joe Rehmer al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria – di aumentare i giri del motore, dialoga fitto e stretto con il sax baritono di Beppe Scardino. Ma la musica non decolla, non funziona. I vocalizzi di John De Leo saturano e banalizzano; gli spazi in cui i solisti si muovono sono angusti, claustrofobici; l'assoluta libertà delle forme e delle atmosfere è solo apparente. Mancano ossigeno, idee, lucidità. Non a caso i momenti migliori li regalano i passaggi all'insegna del sotto voce (un amoroso duetto tra Rehmer e Calcagnile e l'unica escursione in solitaria concessa a Guidi). Urge una messa a fuoco. Si capisce perfettamente quel che Petrella voleva evitare nell'omaggiare Rota e Fellini (banalità, didascalie, fanfaronate). Ma su quel che voleva che la musica diventasse al momento ci sono soltanto nebbiose ipotesi.

Immagine rimossa.
Dave Douglas e Tom Harrel (foto Gianfranco Rota)

Quando si rialza il sipario Dave Douglas e Tom Harrell sono già schierati e pronti a duettare. È la prima volta in assoluto che incrociano le trombe («la seconda se si considera una jam session di una ventina d'anni fa», puntualizza Douglas). Un evento. Con tutti i rischi del caso. Il timore è che l'inedito incontro si risolva in un'anonima jam a suon di standard e ballad. Per fortuna non succede. La bellezza, brano dopo brano, assolo dopo assolo, prende il sopravvento sullo scetticismo. Un Douglas insolitamente affettuoso e ciarliero si prende cura del problematico compagno di viaggio: lo coccola, lo accarezza, asseconda indugi e incertezze, lo pungola, e, soprattutto, abbassa i toni del proprio esuberante carisma. Nei panni di un amorevole fratello, si assicura che la sezione ritmica (fantastica Linda Oh al contrabbasso, una rivelazione il giovane batterista Anwar Marshall, solido come sempre Luis Perdomo al piano) rispetti la poetica di Harrell. Che dal canto suo, quando all'improvviso si accende, regala spazzi di commovente lirismo, frasi e passaggi di un'intensità che leva il fiato. Non tutto funziona; qua e là emergono fisiologiche sbavature. Ma l'evento degli eventi è all'insegna della sincerità. Un jazz dal volto umano che per un'ora e spiccioli induce a pensare che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili.

Prima della buonanotte c'è ancora il tempo per un gustoso dopo festival. Ci si sposta, non senza difficoltà, allo Spazio Polaresco, struttura gestita dal Comune e da un pool di associazioni. Sul palco il collettivo bresciano RES, del quale fanno parte, tra gli altri, il trombettista Gabriele Mitelli e il sassofonista Massimiliano Milesi. Che per l'occasione veste i panni del direttore d'orchestra, lanciandosi in una conduction che sa di Butch Morris. La musica è vibrante e divertente, sospesa tra cacofonia e derive sfacciatamente rockettare. Assiepati lungo le pareti e intorno ai tavolini tanti volti giovani. Che gradiscono e applaudono, ascoltano attenti, non si lasciano sfuggire nemmeno una nota. A dimostrazione del fatto che il jazz non è morto. Forse andrebbe ripensato il modo di proporlo a chi ha meno di trent'anni. C'è un enorme potenziale in queste orecchie avvezze ai formati digitali e alla fruizione orizzontale. Capire come sfruttarlo sarà fondamentale per garantire un futuro alle musiche non allineate.

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