L'America di Lonnie Holley

In MITH l’artista afro-americano fotografa gli Stati Uniti al tempo di Trump, cercando al contempo l’essenza dell’esistenza

Lonnie Holley
Disco
jazz
Lonnie Holley
MITH
Jagjaguwar
2018

Per chi non la conosce, la storia personale di Lonnie Hollie sembra uscita da un romanzo: nato a Birmingham, Alabama, nel 1950, quando era ancora in vigore le leggi segregazioniste "Jim Crow", “rapito” da una ballerina di burlesque offertasi di aiutare sua madre già impegnata da altri due bambini piccoli, all’età di quattro anni è venduto in cambio di una bottiglia di whisky, cambia diverse famiglie, finisce per due anni e mezzo in un riformatorio (in realtà un campo di schiavi), fa il cuoco specializzato in spaghetti al Disney World di Orlando, Florida, ritorna in Alabama e va a vivere ad Airport Hill, la collina vicino all’aeroporto di Atlanta, Georgia. 

Una sera del 1979, mentre lui e sua sorella sono fuori, la casa prende fuoco e nell’incendio muoiono le due nipotine. Sconvolto, Holley decide di rendere loro omaggio con una scultura realizzata con materiali recuperati in una discarica, posizionandola sulla tomba delle due piccole. È la prima di numerose opere, assemblaggi di arenaria scolpita, serigrafie, metalli e oggetti di recupero, lavori che a volte possono far venire alla mente i ready-made di Marcel Duchamp, che nel corso degli anni otterranno il riconoscimento di importanti istituzioni quali il Metropolitan Museum of Art, il MassMOCA, la National Gallery of Art e la Smithsonian Institution.

Nei suoi giri per rigattieri e discariche Holley recupera un vecchio Casio e un juke-box per karaoke, si mette a trafficare, impara a suonare le tastiere da autodidatta, inizia a comporre testi che in realtà sono flussi di coscienza, meditazioni sulla realtà con riferimenti biblici. L’amico Matt Arnett, co-produttore di MITH, realizza le prime registrazioni delle “canzoni” di Holley, alcune delle quali finiscono in Just Before Music (2012) e Keeping a Record of It ((2013); quando sono resi disponibili, i dischi lasciano spiazzati i critici: sono bellissimi ma non catalogabili, e forse è questo il motivo per cui il nome più ricorrente nelle recensioni all’epoca è quello di Sun Ra, un altro arrivato dalla “Terra di Nessuno”.

MITH è il frutto di registrazioni effettuate a Porto, in Oregon, a New York e ad Atlanta; ad accompagnare Holley ci sono il produttore e musicista Shahzad Ismaily, il sassofonista Sam Gendel, il musicista “cosmico” Laraaji, il duo jazzistico Nelson Patton e Richard Swift, collaboratore degli Shins e dei Black Keys, prematuramente scomparso un paio di mesi fa.

Dieci canzoni per un totale di ottanta minuti, all’interno delle quali Holley, impiegando la sua personalissima poetica, passa dal Black Lives Matter di “I’m a Suspect” alla vicenda di Standing Rock e dell’opposizione dei Sioux alla costruzione del Dakota Access Pipeline (“Copying the Rock”), dalla politica americana odierna di “I Woke up in  Fucked-Up America” alle riflessioni sulla schiavitù di “I Snuck off the Slave Ship”.

Le canzoni di Holley hanno la capacità di descrivere singoli episodi per poi passare repentinamente a visioni cosmiche, dove la Terra e l’umanità sembrano galleggiare come granelli di polvere nell’infinito dell’Universo. MITH è un album arrabbiato, viscerale, ma, ancora una volta, aperto alla speranza, un brodino caldo e amorevole per la disincantata anima americana. La voce di Holley, a volte messianica, a volte maestosa, sempre emozionante, conduce gli ascoltatori in territori in cui si evocano ricordi e si tratteggiano visioni: è come lo specchio di Alice, una volta varcato si entra in un altro mondo, dove siamo costretti a fare i conti con noi stessi.

“Sono un sospettato in America, a causa della mentalità di alcuni qui sono un accusato”

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