Il figliol prodigo e altre parabole di Ry Cooder

Torna Ry Cooder con The Prodigal Son, disco che racconta il presente avendo salde radici nel passato del blues 

Ry Cooder, Prodigal son
Disco
pop
Ry Cooder
The Prodigal Son
Fantasy
2018

La parabola del figliol prodigo è antica quanto il Vangelo. E le musiche contenute nel nuovo disco di Ryland Peter Cooder – detto Ry – che porta quel titolo sono vecchie anch’esse, benché non così tanto: radicate geneticamente nel cuore della Tradizione Americana del Novecento, roba da Smithsonian Institution insomma.

Che diamine c’entrano con l’attualità, dunque? Più dell’immaginabile, in verità. Prendiamo un verso da “Everybody Ought to Treat a Stranger Right”, standard blues venato di gospel registrato nel 1930 da Blind Willie Johnson: “Tutti noi qui siamo stranieri”, recita. Pensate a come suona adesso: ovviamente oltreoceano, ma pure sulle sponde europee dell’Atlantico.

Ha fatto un ragionamento di questo genere Ry Cooder dovendo preparare il primo album da sei anni in qua (l’ultimo era Election Special e a sua volta aveva –l’intestazione è inequivocabile – un movente politico, uscendo alla vigilia del match fra Obama e Mitt Romney): cercare nel passato soggetti paradigmatici, perciò ancora significativi ai giorni nostri. Ad esempio “You Most Unload”, sorta d’inno metodista composto nel 1927 da Alfred Reed: invettiva rivolta ai fedeli con un debole per le ricchezze mondane (“Tu cristiano amante del denaro, che rifiuti di pagare la tua quota, ti devi sgravare”). Lo conoscesse, Papa Francesco ne farebbe tesoro per le sue prediche.

Su 11 canzoni otto hanno quell’origine, dall’iniziale “Straight Street”, ballata classica ma intensa tessuta pizzicando le corde del mandolino, alla conclusiva “In His Care”, il cui andamento rockeggiante non dispiacerebbe a Tom Waits o Nick Cave. Di tutte le cover, la più audace riguarda “Nobody’s Fault But Mine”, farina del sacco del citato Willie Johnson: blues reso magicamente astratto da un trattamento “ambient” che riecheggia sia il Quarto Mondo vagheggiato da Eno e Jon Hassell sia la leggendaria colonna sonora di Paris, Texas. Merito di Joachim, figlio trentanovenne del settantunenne Ry e da tempo suo complice musicale: in coppia firmano “Gentrification”, quadretto desolante di come vanno le cose in California, a dispetto del fischiettare scanzonato che lo contraddistingue (“Questo edificio è stato venduto a Johnny Depp, accetta il sussidio e trasferisciti, gli uomini di Google stanno arrivando in centro”).

Il protagonista fa invece da sé in “Jesus and Woody”, dove appunto il Messia incontra Guthrie e gli dice: “Credo di preferire i peccatori ai fascisti”. Ecco, in due parole: un disco fantastico (copertina inclusa). Ai livelli dei migliori realizzati da Cooder nell’arco di quasi mezzo secolo, tipo Paradise and Lunch Into the Purple Valley.

 

 

 

Alberto Campo

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