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Non esistono opere d'arte "scadute"

Recensione
classica
Pochi giorni fa ho ascoltato l’orchestra sinfonica di Bari, diretta da Marcello Panni, felicemente impegnata nella Sinfonietta di Poulenc. Ho sempre apprezzato la musica di Poulenc, che considero ricca di humor e di sensualità, però non conoscevo la Sinfonietta, programmata col contagocce dalle nostre orchestre. L’opera è stata composta nel 1947, e all’ascolto non si può fare a meno di pensare ad alcune pagine di Strawinsky, in particolare Pulcinella e Capriccio per piano e orchestra. Entrambe, però, risalgono agli anni Venti (per l’esattezza al 1920 Pulcinella e al 1929 Capriccio); e se a ciò si aggiunge che Francis l’inattuale ha scritto la sua opera sinfonica nell’immediato secondo dopoguerra, mentre Boulez dava gli ultimi ritocchi alla Sonata n.2 per pianoforte, si resta stupiti. E però penso che sarebbe troppo facile concludere che Strawinsky sia un genio e Poulenc un epigono, una figura minore, un compositore trascurabile, come pure qualcuno azzarda. Ciò che mi lascia sempre perplesso, nell’esercizio critico su di un’opera d’arte - che provenga da un esperto o un profano poco importa - è quella sorta di brutalità cronologica, che porta a liquidare opere musicali o pittoriche con un semplice “già visto” o “già sentito”. Comunque già fatto, e dunque inutile, non interessante, insomma pervenuto a tempo scaduto. Penso che la capacità di prefigurare il futuro sia una qualità, fondamentale ma non indispensabile, in un’opera. Che talvolta può trovare il suo motivo di fascino, invece, nella grazia, nella profondità o nella originalità con cui volge lo sguardo al passato. In questo caso si tratta, peraltro, di un passato al quadrato, perchè Poulenc non guarda al Settecento, ma a Strawinsky che guarda al Settecento. Mi interessa sottolineare un’altra cosa: il carattere di novità, o meglio di unicità, di un’opera, non è sempre evidente, esibito, facile da individuare. La mia impressione, e lo dico innanzitutto da interprete che per mestiere deve interrogare le partiture, è che certi giudizi si arrestino alla superficie, rinuncino ad andare in profondità, e soprattutto impongano come canone la capacità del critico/interprete, di quel critico/interprete, di cogliere la verità dell’opera. Elevando il relativo ad assoluto. Non c’è opera che, per quanto inattuale, possa competere – per inadeguatezza – con questo atteggiamento.

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