ROF 2017, le opere minori?

La pietra del paragone e Torvaldo e Dorliska riproposte in due collaudati allestimenti

Recensione
classica

Una particolarità del Rossini Opera Festival di quest'anno è che le tre opere in programma erano state fino a ora rappresentate una sola volta durante le trentotto edizioni del festival. Questo non deve però far pensare che siano opere minori. Diverse sono infatti le cause di questa loro rarità. Le Siège de Corinthe (di cui si è già riferito QUI) è sempre stato considerato un capolavoro, ma se ne attendeva l'edizione critica, ora finalmente disponibile.

Di Torvaldo e Dorliska si era deciso, senza averla nemmeno ascoltata, che fosse un'opera di scarso interesse e nemmeno il precedente allestimento del ROF era riuscita a spazzare totalmente via i pregiudizi, pur avendo avuto un'accoglienza più che positiva da parte del pubblico e della critica.

Infine, La pietra del paragone è effettivamente un'opera minore, se ancora è utilizzabile questa categoria critica. D'altronde anche ad un genio come Rossini si deve concedere il diritto di un tentativo non perfettamente riuscito in un campo per lui pressoché nuovo: aveva infatti appena vent'anni e fino ad allora aveva scritto solo un'altra opera buffa, L'equivoco stravagante, anch'essa non annoverabile tra i suoi capolavori. In quel periodo si stava ancora facendo la mano con una serie di farse in un atto e in realtà anche La pietra del paragone ha tutte le caratteristiche di una farsa, tranne la considerevole lunghezza, ottenuta tirando per le lunghe la storia già altre volte sfruttata di un uomo che, intenzionato a sposarsi, vuole mettere alla prova le varie pretendenti.

Il librettista Luigi Romanelli conosceva il mestiere e inventò una serie di situazioni piuttosto insolite, che lì per lì incuriosiscono ma alla lunga stancano. Non la pensava così Stendhal, che definì La pietra del paragone il capolavoro di Rossini nel genere buffo, ma è lecito diffidare del suo giudizio, visto che invece ebbe molte riserve sui veri capolavori di Rossini. D'altronde i gusti musicali dello scrittore francese erano fermi a Cimarosa, come quelli del pubblico milanese, che decretò il clamoroso successo della La pietra del paragone, la cui prima alla Scala fu seguita da cinquantadue repliche consecutive: in effetti quest'opera sta a metà strada tra Cimarosa, scomparso da oltre un decennio, e le future opere buffe di Rossini: non è affatto un risultato disprezzabile, ma Rossini ci ha abituato a ben altro.

La pietra del paragone è stata riproposta nell'allestimento del 2002, con la regia, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi, che vi ha apportato ora alcune modifiche, senza stravolgerne l'impianto originario. Tutto si svolge in una villa in stile razionalista, con quadri di Burri alle pareti e grandi vetrate che si affacciano su un parco dotato di piscina e campo da tennis privati. Vi abita il Conte Asdrubale, che non è l'uomo ormai maturo e un po' misogino descritto dal libretto ma un aitante giovanotto, la cui maggior preoccupazione è mostrare il fisico scolpito, aggirandosi per la scena in costume da bagno o in vestaglia slacciata. Tutta la piccola corte che ruota intorno a lui riceve lo stesso upgrade e quei polverosi rappresentanti di un piccolo mondo ottocentesco sono trasformati negli esponenti di una moderna fauna umana, composta da fashion victim (le tre donne indossano autentici abiti di grandi stilisti del recente passato), patetici rappresentanti di una cultura letteraria ormai inutile e giornalisti venali. A questa regia brillante e divertente - e allo stesso tempo supremamente elegante - va riconosciuto il merito di aver fatto sì che anche il pubblico del 2017 si riconoscesse in quest'opera vecchiotta.

Passando al versante musicale, ha deluso la direzione di Daniele Rustioni, piatta e pesante, senza che i tempi talvolta frenetici vi mettessero un briciolo di vivacità, ché anzi peggioravano la situazione. Rossini proprio non sembra essere nelle corde di questo ancor giovane direttore, che abbiamo ascoltato in prove molto migliori. Gianluca Margheri – che sostituiva Luca Pisaroni, spostato a Le Siège de Corinthe per sostituire a sua volta Alex Esposito – ha il physique du rôle per questo Conte Asdrubale in slip ma se la cava discretamente anche col canto. Il punto di forza del cast sono però tre cantanti habitué del ROF: Paolo Bordogna è ormai ben noto e c'è poco da aggiungere agli elogi delle volte precedenti, Davide Luciano sta crescendo presto e bene ed è già una sicurezza, Maxim Mironov nel ruolo del giovane innamorato respinto si conferma cantante sensibile e aristocratico, che anche nei passaggi virtuosistici non diventa mai circense ma mantiene misura ed eleganza.

La protagonista femminile era la giapponese Aya Wakizono, corretta ma esile: Donna Clarice doveva essere ben altra cosa, quando la cantava la grande Maria Marcolini, per cui Rossini ha scritto questa parte. Nei ruoli femminili secondari Aurora Faggioli e Maria Monzò si facevano notare più per l'esuberante presenza scenica che per speciali meriti vocali.

Torvaldo e Dorliska appartiene al ristretto numero delle opere semiserie di Rossini, che sono tutte estremamente interessanti, pur avendo sempre avuto una fortuna piuttosto modesta, perché questo genere non si è mai pienamente affermato in Italia. L'opera ha impressionanti affinità col Fidelio, ma ciò non implica affatto la conoscenza dell'opera di Beethoven da parte di Rossini e del librettista Cesare Sterbini e può semmai essere spiegato con la comune derivazione dal genere francese della piéce à sauvetage. Anche qui, come in Beethoven, c'è un bieco tiranno che tiene nelle segrete del castello un prigioniero, che però in questo caso è la protagonista femminile, quindi sarà il protagonista maschile a presentarsi sotto mentite spoglie per introdursi nel castello e liberare l'amata. Ma viene scoperto e la situazione sta per precipitare, quando le campane – non la tromba come nel Fidelio – annunciano il classico "arrivano i nostri", che in questo caso non sono gli inviati del sovrano ma i contadini armati di picche, che si ribellano al loro tirannico padrone: un finale non illuministico come in Beethoven ma apertamente rivoluzionario, che potrebbe apparire sorprendente nella città dei papi immediatamente dopo il Congresso di Vienna.

Sarebbe sbagliato cercare in Rossini l'afflato del Coro dei Prigionieri e del Finale del Fidelio, perché quel che Torvaldo e Dorliska racconta è una vicenda umana, individuale e contingente, che non aspira ad ergersi a sublime esempio etico per l'intera umanità come in Beethoven. Va anzi a finire che il personaggio su cui si concentra l'attenzione di Rossini è il Duca d'Ordow, il "cattivo". La sua violenza è ispirata da un sentimento in origine positivo, l'amore, ma il rifiuto di Dorliska lo spinge ad azioni sempre più arroganti e temerarie, prendendo una china su cui non si può più fermare e finendo impaniato nella rete stessa dei suoi soprusi, come un Macbeth che non riesce ad essere tragico ma rimane a un livello semiserio. Nicola Alaimo individua il sottofondo umano del personaggio, quel germoglio di tenerezza che sboccia però in violenza, necessariamente, perché questa è la regola di comportamento imposta al duca dal suo rango feudale. Tutto questo Alaimo lo esprime magistralmente con tutta una serie di accenni della recitazione e di sfumature del canto: d'altronde nemmeno volendo potrebbe far diventare cattiva una voce dal timbro così bello e morbido né nascondere il cuore che batte in quel corpo tanto imponente da apparire minaccioso. Giorgio, l'equivalente del Rocco beethoveniano ma con sfumature da Leporello, è l'unico personaggio ad avere delle pagine comiche (in verità c'è anche Ormondo, con la sua gracile aria del sorbetto) ed è ben realizzato da Carlo Lepore. Salome Jicia dà a Dorliska colorature perfette e un timbro leggermente metallico, che ben si attaglia a questa sorellina dell'indomita Leonore/Fidelio di Beethoven. Dmitry Korchak canta a fior di labbro ed esibisce mezze voci dolcissime, ma è fuori ruolo in una parte scritta per un baritenore eroico come Cesare Donzelli, che lo stesso Rossini definiva "tenore a gran polmoni".

Molto positivo il debutto al festival di Francesco Lanzillotta, giovane direttore in progressiva ma sicura ascesa. Ha iniziato dirigendo benissimo la Sinfonia – che Cagli giustamente definisce "pagina magnifica di schubertiana finezza e levità" – in cui è riuscito a ottenere tutto il possibile dalla locale Orchestra Sinfonica G. Rossini, un po' intimidita all'inizio, poi via via più sicura. E ha proseguito trovando sempre i tempi e i colori giusti e naturali per questa partitura sottilmente complessa. La stessa naturalezza si è ritrovata nel modo con cui i rapporti psicologici tra i personaggi erano colti dalla regia di Mario Martone. Si trattava della ripresa del suo spettacolo del 2006, memorabile soprattutto per il geniale ribaltamento della spazio scenico ideato da Sergio Tramonti, per cui del castello si vede solo la cancellata, oltre la quale si stende un intricato bosco, che rappresenta una spaventosa minaccia ma anche una speranza di fuga.

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