Don Giovanni inaugura il festival di Spoleto

In prima assoluta il Requiem di Silvia Colasanti per le vittime del terremoto del 2016

Recensione
classica
Col Don Giovanni il Festival di Spoleto ha inaugurato la sua sessantesima edizione e concluso la trilogia Mozart-Da Ponte, iniziata nel 2015. La regia di Giorgio Ferrara è sembrata prudente e rispettosa, quindi senza arbitrii e senza errori, ma anche anonima e povera di idee, cosa veramente paradossale in un'opera come il Don Giovanni, che sollecita un uomo di teatro come poche altre. Intendiamoci, in tre ore di spettacolo è praticamente inevitabile che alcune idee ci siano. Eccone una: quando Donna Anna in "Era già alquanto avanzata la notte" racconta a Don Ottavio la notte in cui Don Giovanni tentò di violentarla e uccise il padre, quei fatti si ripetono effettivamente sul palcoscenico, perchè nella sua mente si sono impressi con tale forza che è come se ella li vivesse ancora come la prima volta. Bene. Ma il più delle volte sono idee piccole che non incidono molto, sia quando sono giuste sia quando sono sbagliate o superflue. Don Giovanni uccide il Commendatore con un colpo di pistola invece che con la spada. Un omino in abiti ottocenteschi attraversa più volte il palcoscenico: si deve pensare che sia Soren Kierkegaard, poiché alcune sue frasi su di Don Giovanni sono state proiettate sul sipario durante l'ouverture. Non è in questo modo che si rende giustizia alla ricchezza drammaturgica di uno dei massimi capolavori del teatro di tutti i tempi. In sostanza questa regia si limita a raccontare l'ultima giornata di Don Giovanni, tra le belle scene neoclassiche con citazioni palladiane di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo e con gli eleganti costumi di Maurizio Galante.

Succede qualcosa di simile - ed è più grave - con la direzione di James Conlon, che inizia con un'ouverture promettente, corrusca e violenta, presa a un tempo più lento del consueto, in cui si fa sentire ancora più incombente l'ombra di una minacciosa forza metafisica. Ma i tempi continuano ad essere molto lenti per tutta l'opera opera, quindi tutto si appiattisce e perde vitalità, sia sul versante tragico che su quello comico. Si ha l'impressione che Conlon, nonostante la sua prestigiosa carriera anche in campo operistico, sia soprattutto un direttore sinfonico, perché l'orchestra non dialoga mai con i cantanti, mentre in Mozart voci e strumenti sono sempre complici: basti pensare all'aria del catalogo. Potrebbe spiegarsi così perché Andrea Concetti, che con altri direttori e altri registi è stato uno straordinario Leporello, sembri l'ombra di se stesso. Non si sa se concedere la stessa attenuante anche al protagonista Dimitris Tiliakos, perché non lo si era mai ascoltato prima, anche se bisogna credere che debba esserci un motivo se ha calcato i palcoscenici di alcuni dei più importanti teatri del mondo: canta correttamente, ma con lo stesso spirito di chi, costretto a seguire una dieta ferrea, legga il menu di un ristorante, con fastidio più che con disinteresse. Antonio Di Matteo s'impone con voce possente come Commendatore, gli altri, tutti giovani, cantano discretamente ma abbozzano appena l'interpretazione dei rispettivi personaggi: sono Lucia Cesaroni, Davinia Rodriguez, Arianna Vendittelli e Daniel Giulianini. Invece Brian Michael Moore è chiaramente immaturo per il ruolo di Ottavio.

Potrebbe essere che le prove siano state insufficienti, perché, sebbene la bacchetta esperta di Conlon e la concentrazione dell'Orchestra Giovanile "Luigi Cherubini" assicurino un buon livello di precisione, si ha l'impressione di assistere ad una prima lettura più che a un'interpretazione compiuta. Se fosse stato uno spettacolo di routine in un teatro di provincia, ci si sarebbe potuti accontentare, ma, trattandosi di un festival, si presuppone che lo spettatore abbia fatto centinaia di chilometri, quindi avrebbe diritto a qualcosa di più. Bisogna però riconoscere che gli spettatori che esaurivano il Teatro Nuovo non la pensavano così e sembravano pienamente soddisfatti, a giudicare dal calore degli applausi.

Invece valeva abbondantemente i chilometri percorsi il Requiem commissionato dal festival a Silvia Colasanti in memoria delle vittime del terremoto che ha colpito l'anno scorso i paesi dell'Appennino centrale. Quest'ampio lavoro di oltre un'ora di durata ha un doppio titolo: "Requiem", preso dal Proprium della messa funebre, che costituisce il testo delle parti musicalmente più complesse, e "Stringeranno nei pugni una cometa", ricavato dai testi della poetessa Mariangela Gualtieri, che essa stessa ha letto col sostegno musicale di uno strumento alla volta o anche totalmente sola, avvolta dal silenzio. La compositrice romana ha scritto una musica intensa e commovente ma senza ombra di sentimentalismo e tanto meno di retorica, con un linguaggio che è moderno, ma privo di complicazioni intellettualistiche, e allo stesso tempo tradizionale, ma arricchito continuamente di nuove idee: forse sarebbe più giusto dire che questa musica non è né moderna né tradizionale, ma fuori del tempo, come i temi eterni che canta. Subito l'ascoltatore è conquistato da un inizio semplice ma enormemente suggestivo: i coristi, spalle al pubblico, strofinano ognuno due pietre, poi iniziano a recitare "Requiem aeternam dona eis" come un mormorio appena percettibile, si girano uno alla volta verso il pubblico e il suono naturalmente diventa più presente, gradualmente cresce, lo strofinio delle pietre si trasforma in un battito ritmico, il canto subentra al parlato, mentre l'orchestra entra con lunghe note tenute degli archi, sul profondo rombo della grancassa e di una lastra metallica, forse l'eco insopprimibile lasciato nella psiche dalla terra che trema. È una musica che scaturisce direttamente da una partecipazione sincera, profonda e rispettosa al lutto delle popolazioni colpite dal terremoto e che perciò giunge direttamente a chi ascolta, con una capacità di toccare nell'intimo che la musica contemporanea sembrava aver perso. L'alternanza del testo liturgico medioevale, depurato da ogni sospetto di teatralità anche nei momenti più terrificanti come il Dies irae, e dei versi della Gualtieri arricchisce questa musica di un approccio contemporaneo e laico. Un ulteriore arricchimento della suggestione di questa musica viene dalla sinfonia di natura e architettura offerta dalla piazza di Spoleto, con la luce dorata del sole sulle pietre del Duomo che lascia gradualmente il posto alla notte, mentre le ultime rondini si uniscono alla musica delle voci e dell'orchestra. La Colasanti temeva che in un'esecuzione all'aperto qualche dettaglio della sua partitura si sarebbe perso, e probabilmente ciò è avvenuto. Ma d'altra parte il suo Requiem ha ricevuto molto dall'ambiente e non rimpiangiamo affatto di averlo ascoltato lì piuttosto che in un auditorium. L'esecuzione è stata superlativa. Il giovane Maxime Pascal è un direttore di enorme talento, Monica Bacelli nel suo ampio intervento si è confermata una cantante di grande sensibilità, Richard Galliano ha portato col suo bandoneon un tocco di semplicità e genuinità popolari. Ottimi l'International Opera Choir preparato da Gea Garatti e l'Orchestra Giovanile Italiana, con una menzione speciale per il primo violoncello Stefano Aiolli, impegnato in un solo tutt'altro che facile. Applausi sinceri, commossi e convinti dai quasi duemilacinquecento spettatori.

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