Il successo di MaerzMusik

Le ultime due giornate del festival di Berlino

Recensione
classica
La due ultime, dense giornate di MaerzMusik 2017 sono principiate con una performance di Alvin Lucier, tra i ‘festeggiati’ della kermesse; prima di parlarne, meglio partire dal secondo, consistente, fascinoso lavoro del venerdì, Le noir de l’étoile di Grisey: un’ora di musica – aperta da un testo introduttivo ‘obbligatorio’ – di notevole valore plastico, nella cui esperienza è fondamentale l’informazione spaziale, oltre che timbrica e ritmica, del suono; fantastici i sei delle Percussions de Strasbourg, anche per l’evidenza gestuale delle azioni nelle sei postazioni al cui centro un piccolo gong ruotante, percosso alla fine, mette in asse gesto performativo e codice sonoro-temporale di partenza (i segnali periodici dei pulsar stellari). Al numerosissimo e plaudente pubblico, la serata aveva offerto all’inizio un’esperienza complementare, rispetto ai cataclismi e alle mareggiate di suono in movimento di Grisey: Clocker estende le ricerche sui segnali elettrici corporei come controllori di dispositivi acustici, iniziate nel campo delle onde cerebrali; il dispositivo controllato è qui un delayer di un semplice segnale periodico d’orologio, inoltre spazializzato; il senso della performance sta nella quasi-immobilità di Lucier, seduto – in immancabile camicia rossa – al centro dello spazio a croce greca della Parrochialkirche, appena accennando a movimenti delle dita cui sono applicati sensibilissimi rilevatori delle differenze di resistenza elettrica sulla pelle. Forse, l’idea – nella relazione tra situazione performativa e sonora – non regge i 30 minuti durati, mentre il famoso I am sitting in a room (1968), eseguito il giorno dopo, si è rivelato ancora efficace e conseguente (qualsiasi sia la sua durata) all’idea di partenza: un testo, auto-riflessivo sulla performance, è registrato, diffuso in un ambiente e – registrata questa diffusione – sovrainciso su se stesso, finché il processo di feed-back non elimina l’articolazione fonetica in favore dei centri di risonanza della voce e dell’ambiente, spalmati ormai come ‘dotati di articolazione ritmica; peccato che un problema di amplificazione sul lato sinistro dello spazio, non facilmente governabile per architettura e grandezza, abbia pregiudicato l’ascolto del processo.

Il contesto di quest’esecuzione va però oltre quello che vi è stato proposto nel corso dell’ultima giornata del festival; che si è avviata, peraltro, con un’altra iniziativa, dedicata presso l’Akademie der Künste, ai 10 anni del bravissimo Sonar Quartett e alla ‘utopia’ della formazione quartettistica, produttiva negli ultimi decenni (e ancora oggi) di opere diversissime, dal ripensamento - del suono nel gesto - in Gran Torso di Lachenmann, all’estensione – fino alla frattura – del tessuto dialogico, nell’8. Streichquartett di Rihm, e alla mimesi dei più vari procedimenti organizzativi (la simulazione di un collage elettroacustico di campioni ‘storici’, il montaggio di riformulazioni di suoni del mondo animale) in brani di Giesen e Poppe. Lasciato a metà per forza di cose questo concerto, si è corsi a metà pomeriggio del sabato verso il Kraftwerk (un grande spazio dismesso, contenitore di svariate proposte artistiche) dove iniziava ad accadere ‘The Long Now’: 30 ore consecutive (anzi 29, calcolando l’ora legale) di installazioni ed azioni, aperte quest’ultime da una realizzazione live della seminagione ‘ambient’ a metà anni Settanta (Fripp & Eno), a mo’ di dichiarazione di programma orientata verso il punto estremo in cui l’elettronica ‘altra’ non era ancora distinguibile, per paradigmi estetici e sperimentali, da quella ufficiale-accademica, con il sottotesto – forse – che in effetti le due ‘elettroniche’ distinguibili non lo siano più, o non lo siano mai veramente state… Tra le installazioni, si segnala l’unica presenza italiana del festival, quella del Museolaboratorio di Città Sant’Angelo, che ha prestato le interessanti video-opere della coppia Basinski-Elaine, mediometraggi fatti di immagini-suoni rubati con dissimulata cura ed esiti ipnotici alla realtà. Per tutte le ultime 24 ore (purtroppo, il volo di ritorno assai mattutino ci ha impedito di seguire oltre metà nottata) moltissimi fruitori di questa cornice d’esperienza si sono sistemati, su letti da campo forniti dall’organizzazione o in propri sacchi a pelo, all’ultimo piano dello stabile, scivolando dentro e uscendo dal dormiveglia anche a seconda dei decibel dei concerti di turno. Chi vuole, naturalmente, può muoversi nello spazio, rifugiarsi ad altri livelli del capannone (dove si può mangiare e bere), o uscire e rientrare a piacimento. La performance di Graindelavoix, iniziata ben oltre la mezzanotte e pregiudicata dall’avvio della serata in un’attigua discoteca, è bastata per apprezzare come il lavoro interpretativo del gruppo sulla polifonia del ‘500 sia diverso da quello ascoltato su altro repertorio giorni prima.

Un paio di considerazioni conclusive: il festival propone, con intelligenza, sforzo e coerenza alla situazione artistica recente (e specificatamente berlinese), un’idea allargata di creatività artistica, oltre che di esperienza (dello spazio, del tempo, della socialità dell’evento). Ma il pubblico segue solo in minima parte il percorso in tutta la raggiera proposta: i presenti ai concerti sono parsi – perlopiù – di volta in volta differenti, motivati a una ‘visita’ anche per ragioni di curiosità verso il contiguo, ma comunque operatori di scelte selettive nell’affollato cartellone. Inoltre, la selezione è scattata, sensibilmente (abbandoni a concerto in corso), all’interno di giornate molto lunghe e articolate: è fenomeno naturale, e in qualche modo atteso dagli stessi organizzatori, che non evitano palinsesti giornalieri di 12 ore (comprendendo le conversazioni). Non l’unitaria e globalizzante assenza di confini, insomma, emerge dal festival, ma la possibilità – locale, ristretta – di sconfinamento episodico; Zeitfragen sembra quindi ancora declinato al plurale: si tratta di ‘domande sul tempo’, ciascuna determinata, più che di un domandarsi organico e comprensivo… ma non è certo un difetto di questo vivacissimo festival!

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