Händel e le donne

“Arminio” e “Semele” nella Quarantesima edizione del Festival internazionale Händel di Karlsruhe

Recensione
classica
Chiedete a un qualsiasi melomane di farvi il nome di una qualche eroina dell’opera e quasi certamente vi sentirete rispondere: Mimì, Violetta, Butterfly, Lucia o magari Isolde. Insomma se non si ha un destino segnato da una malattia mortale o se non si è divorate dalla follia non c’è alcuna speranza di entrare stabilmente nel cuore dei melomani. E forse perché quelle di Händel sono spesso donne indomite e fiere, anche se spesso accusano il colpo di amanti infedeli quando non sono lacerate dal conflitto fra amore e dovere, tendiamo a dimenticarcene. Se ne dichiara convinta Donna Leon, giallista di robusta fama internazionale e da qualche anno prodiga patrona del barocco, a Karlsruhe nei panni di presentatrice di lusso del recital di Patrizia Ciofi accompagnata dal Pomo d’Oro. Dal ricco campionario di eroine del repertorio händeliano, il soprano ha presentato una piccola ma significativa antologia di donne forti, furiose, per lo più sconfitte, che si apriva con la regina dei Longobardi, Rodelinda, proseguiva con l’indomita maga Alcina tormentata da dubbi e (ma non per questo) abbandonata, la “sorella minore” Melissa dell’ “Amadigi” anche lei sedotta e abbandonata, la Laodice del “Siroe” e si chiudeva con la Cleopatra, “femme fatale” capricciosa, del “Giulio Cesare in Egitto”. Festeggiatissimi la Ciofi, che prestava la classe dell’interprete consumata all’accattivante galleria di donne häendeliane, e l’ensemble strumentale diretto nell’occasione dal cembalista Maxim Emelyanychev. Donne al centro anche nelle due produzioni principali della 40^ edizione del Festival Internazionale Händel a Karlsruhe, anche quest’anno seguita da un pubblico numeroso e appassionato. In cartellone per il 2017: la ripresa di “Arminio” dall’edizione 2016 e un nuovo allestimento di “Semele”.

“Arminio” al Festival Händel di Karlsruhe

Appartiene alla tribù dei Catti e dunque germanica Tusnelda, ma potrebbe degnamente rappresentare un campione di quelle virtù che invece difettano ai romani Varo e colleghi. Questi, più che nello slancio bellico, son tutti presi a complottare col collaborazionista Segeste, padre della donna, per liberarsi del generale cherusco Arminio, consorte di Tusnelda ed eroe germanico della battaglia della foresta di Teutoburgo. Tradito da Segeste, Arminio cade in mano nemica ed è condannato a morte, ma lei è incrollabile nella sua fedeltà coniugale nonostante le attenzioni di Varo, che, con una trovata registica un po’ dubbia, la prende con la violenza mentre lei lo supplica “Rendimi il dolce sposo, due vite io ti dovrò”. L’altra donna, Ramisa, sorella di Arminio e legata a Sigismondo, l’altro figlio di Segeste, è invece di tutt’altra pasta, anche se sfodera un certo inatteso temperamento nell’esortare l’amante al riscatto di Arminio. Poco incline ai gesti eroici, Sigismondo si guadagna per questo le rampogne del padre, che lo insulta con un: “Tra i vezzi di costei qui ti trattieni, o effeminato figlio?” mentre lo sculaccia. Il colpo di mano comunque riesce, Arminio riprende il comando, sconfigge i romani, riunisce la famiglia e, con altra dubbia trovata registica, condanna Segeste a morte, con tanto di decapitazione sulla ghigliottina in proscenio. Ghigliottina? Sì, perché le battaglie fra romani e tribù germaniche nell’allestimento di Karlsruhe venivano trasposte nell’Europa di fine Settecento, suggerita nella scena rotante dalle linee essenziali di Helmut Stürmer ma soprattutto nei sontuosi costumi di Helmut Stürmer e Corina Gramosteanu. Con un insolito rovesciamento delle prospettive storiche, la luce della civiltà propugnata delle classi aristocratiche veniva minacciata dall’oscurantismo di scomposte milizie rivoluzionarie dei tagliatori di teste. Regista dell’operazione era Max Emanuel Cencic, anche impegnato nei panni del protagonista Arminio, come già nel 2016, disegnato con attenta introspezione e tratti di composta nobiltà. Molti cambi nel cast rispetto alla scorsa edizione: Lauren Snouffer era una Tusnelda vibrante e di solida tenuta vocale, Aleksandra Kubas-Kruk era un Sigismondo di grazia galante e Gaia Petrone dava vita a una Ramise esuberante e dai tratti simpaticamente stravaganti. Dalla scorsa edizione, si ritrovavano invece l’agile Varo di Juan Sancho, l’estroso Tullio di Owen Willetts e il corposo Segeste di Pavel Kudinov. Si ritrovava anche la qualità strumentale dell’Armonia Atenea guidata dal gusto di George Petrou. E si ripeteva il successo con applausi calorosi e chiamate per la produzione targata Parnassus Arts, ripresa di recente anche a Cracovia e auspicabilmente destinata ad altre tappe future.

“Semele” al Festival Händel di Karlsruhe

Vanitosa e bizzosa l’altra eroina, Semele, la donna che fece innamorare Giove e, per voler diventare immortale, restò incenerita dallo splendore del dio. In questo strano oratorio händeliano, che all’epoca Charles Jennens condannò come “opera oscena”, la figlia di Cadmo, re di Tebe, per volontà dello spiritoso regista Florin Visser, veste i panni della stagista di un presidente USA, donnaiolo impenitente (ricorda qualcuno?). Inevitabimente lui se ne invaghisce e la fa rapire dalle truppe d’assalto quando lei sull’altare sta per dire “sì” al promesso sposo, l’ufficiale dei marine Athamas. Rinchiusa in un luogo di delizia con piscina e cameriere indiano (Cupido), Semele consuma infuocati amplessi presidenziali, mentre la first lady Juno organizza il blitz distraendo l’addetto alla sicurezza Somnus con la pinup del paginone centrale di una rivista per soli uomini. Indotta con l’inganno dalla first lady sotto le mentite spoglie della sorella Ino, Semele mette alle strette President Jove chiedendogli di essere come lui. Lui cede, nemmeno troppo a malincuore, e la molla in pasto ai flash dei paparazzi che la inceneriscono “quasi” come da libretto. L’aggiornamento del mito in salsa sesso e potere stile “House of Cards” funziona senza intoppi e diverte davvero. La scena di Gideon Davey, che riprende le linee classiche del Pantheon romano, è uno sfondo perfetto alla solennità neoclassica delle architetture istituzionali americane. Se gli interpreti sembravano rispondere soprattutto a esigenze di casting adeguate allo standard cinematografico della regia, nessuno deludeva sul piano musicale: Jennifer France era una Semele fresca e accattivante, Ed Lyon un Giove spavaldo e virile, Katharine Tier una Giunone virago con ironia, Terry Wey un Athamas languoroso quanto vanesio, Dilara Baştar una Ino determinata, Edward Gauntt un Cadmo senilmente autorevole, e anche i ruoli minori funzionavano con Hannah Bradbury (Iris), Yang Xu (Somnus) e Ilkin Alpay (Cupid). Impeccabile nella sua compostezza britannica l’esecuzione musicale diretta da Christopher Moulds alla testa dei Deutsche Händel-Solisten di straordinaria opulenza sonora. Di grande rilievo anche la prova del neonato Händel-Festspielchor, la felice novità dell’edizione 2017 del festival händeliano.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Al Theater Basel L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart in versione scenica

classica

Un'interessantissima lettura della Nona

classica

Eccellente realizzazione del capolavoro quasi-testamentario di Messiaen al Grand Théâtre di Ginevra