Le reti del Premio Tenco

Il reportage dall'edizione numero 40 della Rassegna della canzone d'autore

Recensione
pop

Il Premio Tenco – al solito – contiene molte, troppe cose. Da dove partire per raccontarle? Ci sono diverse chiavi interpretative per narrare l’edizione numero 40 (la Rassegna nacque nel 1974, ma si sono saltati alcuni anni).

C’è il tema scelto, quello dei migranti, approcciato (anche se non sempre in maniera efficace) da diversi punti di vista, compreso un incontro pomeridiano con il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano e Sergio Staino (Premio Tenco all’operatore culturale). E che alla fine è stato più pretesto che vero filo conduttore della tre giorni.

C’è una sorta di “ritorno alla normalità” e alla formula consolidata delle serate al Teatro Ariston, dopo il grande successo della scorsa edizione celebrativa dedicata a Francesco Guccini. E c’è – come è naturale che sia – l’omaggio Luigi Tenco che ha occupato per intero la serata di sabato (la migliore), a pochi mesi dall’anniversario dei cinquant’anni del suo suicidio.

A voler tirare un bilancio finale dei partecipanti alle prime due serate “normali”, si può dire che il meglio lo abbiano dato i vincitori delle Targhe (che, ricordiamo, sono assegnate da una giuria di giornalisti). Eccellente l’esibizione di Peppe Voltarelli e Otello Profazio in apertura della prima serata, con lo stesso Voltarelli che ha interpretato la “sigla” del Tenco, “Lontano lontano”. Il duo calabrese “intergenerazionale” (i due sono nati lo stesso giorno, a 33 anni di distanza) funziona molto bene, con l'allievo che – pure rimanendo fedele alla lezione di Profazio maestro – rilegge i brani del repertorio del maestro con piglio e stile personali.

Sempre la prima sera, Motta – Targa all’opera prima ben più che annunciata – ha convinto con una buona esibizione di quelli che, dopo un tour lunghissimo, sono ormai i suoi "cavalli di battaglia" (anche se… con Bombino, chiamato sul palco nell’ultimo pezzo, l’intesa non è scattata, e la lunga session finale è stata più tedio che transe).

Altrettanto bene ha fatto Niccolò Fabi la seconda sera, proponendo un set più esteso degli altri, purtroppo tagliato dalla diretta Rai per alcune lungaggini della parte precedente della serata, probabilmente evitabili. Bello il suono della band, che orecchia con classe alcune produzioni americane di oggi.

Claudia Crabuzza ha proposto un live energico e senza sbavature, incentrato sui materiali del primo disco a suo nome, Com un soldat. Sul palco dell’Ariston l’algherese ha confermato quanto la Targa per la migliore opera in dialetto sia stata ampiamente meritata. Meno interessante, decisamente, l’altro vincitore ex aequo, James Senese e Napoli Centrale. I tempi d’oro sono lontani, e il sound del gruppo sembra essere rimasto ancorato a una zona grigia che non è né vintage anni settanta, né sintonizzata con i suoni di oggi.

Fra gli ospiti internazionali, Stan Ridgway ha onorato il Premio Tenco, attribuitogli dal Club, con un’esibizione non del tutto convincente. Accompagnato dal bravo Luca Faggella alla chitarra e dalla moglie alle tastiere, il cantautore non è sembrato particolarmente in forma: in scaletta anche una cover “classica”, “Ring of Fire” (già nel suo repertorio con i Wall of Voodoo) – che all’Ariston risuona però piuttosto smorta.

Due invece le proposte “giovani” scelte dall’organizzazione: Ivan Talarico e Gianluca Secco. Molto interessante Talarico, già vincitore di Musicultura nel 2015, dotato di uno sguardo sulla canzone surreale e originale: nella prima serata ha proposto due canzoni senza testo, fatte di sillabe sparse e urletti – un colpo di genio, alla rassegna della canzone d’autore! Decisamente meno memorabile Secco, un po’ sopra le righe e già sentito, che pure ha strappato gli applausi del pubblico con alcuni “trucchetti” (vedi alla voce loop station).

C’era anche, fra gli invitati, una folta compagine partenopea: oltre a James Senese, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, e Enzo Avitabile insieme alla cantante palestinese Amal Murkus. In entrambi i casi buone esibizioni, ottima in particolare quella di Avitabile, intima e accorata (con dedica a Vittorio Arrigoni). Da citare anche la presenza di Pino Pavone, storico collaboratore di Ciampi e valido cantautore anche in proprio, accompagnato da Marco Spiccio al pianoforte.

Bombino ha proposto sul palco dell’Ariston quello che è parso un breve estratto del suo show abituale: livello alto come sempre, anche se il chitarrista di Agadez ha forse bisogno di tempi più estesi per “entrare in temperatura”: complice il contesto teatrale e il pubblico ben ancorato alle poltronissime, l’esibizione è sembrata più fredda di quanto Bombino non ci abbia abituati. Alla fine, fra gli ospiti, la cosa migliore ascoltata è stata Lula Pena. La cantante e chitarrista portoghese, in solitaria, ha tirato fuori un set intenso e senza pause, in cui la forma canzone si dilatava in una sorta di dimensione quasi-transe.

L'altro grande momento, di quelli che rimangono per lungo tempo, è stata la consegna della Targa per la migliore canzone, assegnata a "La bomba intelligente" di Francesco Di Giacomo e Paolo Sentinelli. Mai incisa da Di Giacomo, la canzone è finita – tramite il "ponte" di Duccio Pasqua e il placet della vedova di Di Giacomo, Antonella Caspoli – nelle mani di Elio e le storie tese, che la hanno inserita nell'ultimo disco Figgatta de Blanc. A Sanremo, per l'impossibilità degli Elii, è toccata a un emozionatissimo e commosso Andrea Satta interpretarla (peraltro molto bene). Uno splendido brano, un bel progetto, un omaggio sentito toccante, mai fuori luogo.

Un capitolo a sé merita infine la terza serata, la “grande opera” del direttore artistico Enrico de Angelis. L’idea di partenza è in realtà molto semplice: mettere insieme un programma di omaggi a Luigi Tenco con artisti nati dopo la morte dello stesso. L’elemento interessante e degno di plauso è la decisione di collaborare un’orchestra (l’Orchestra Sinfonica di Sanremo), e soprattutto di affidare la direzione e la scrittura degli arrangiamenti a Mauro Ottolini – che su queste pagine abbiamo spesso incontrato per il suo lavoro di improvvisatore e leader di formazioni jazz (ad esempio con il progetto Sousaphonix. Ottolini tratta i pezzi di Tenco – quelli più ovvi, ma anche molti tratti dallo splendido repertorio delle “ballate” del periodo Saar e oltre – con approcci sempre diversi e idee fresche. In alcuni casi sceglie una via “vintage” scrivendo ora con gusto da big band (Ottolini è trombonista, ed è indubbio che dia il meglio di sé sulle parti di fiati), ora quasi omaggiando la scrittura delle orchestre Rai del festival di Sanremo. Altrove invece opta per soluzioni più ingegnose, aggiungendo ostinati, riff, sommando e sottraendo, e rivestendo le canzoni di nuovi colori.

I cantanti ne escono tutti valorizzati: Marina Rei interpreta “Li vidi tornare”, l'antenata di “Ciao amore ciao”, e una intima “Quando”. Diego Mancino è molto bravo con “Se sapessi come fai” e “Ragazzo mio”. Alfina Scorza, dapprincipio un po’ intimorita, offre due versioni pulite di “Un giorno dopo l’altro” e “Io sì”. Ottolini comincia a scatenarsi con Gli Scontati (Lorenzo Kruger e Giacomo Toni), mettendo su una esilarante versione bandistica di “Vita sociale”, e riscrivendo in chiave swing “Un giorno di questi” (con l’attacco dei fiati che sembra fare il verso a quello, celeberrimo, di “Minnie the Moocher”). Con Vanessa Tagliabue Yorke, sua collaboratrice occasionale, il direttore può permettersi di rischiare, e se “Quasi sera” ha un bell’arrangiamento standard, “Ho capito che ti amo” si apre con un’introduzione di fagotto (strumento cui Ottolini assegna molte parti centrali) per diventare poco a poco un pezzo arabo saturo di archi lussureggianti, percorrendo nel giro di pochi minuti infinite ispirazioni e suggestioni. La cosa migliore sentita in tutta l’edizione 2016, senz’altro.

Roy Paci gigioneggia con classe su “In qualche parte del mondo” e “Giornali femminili”. Bocephus King – geniale cantautore canadese che è riuscito nella non facile impresa di farsi “adottare” dal Tenco, dopo il successo dell’anno scorso come interprete gucciniano – rilegge con piglio da crooner “Mi sono innamorato di te”, e porta “E se ci diranno” in una direzione dylaniana… A ben vedere, un duplice ritorno a casa, per entrambe le canzoni.

Ad Ascanio Celestini toccano “Padroni della terra” (cover tenchiana di Vian) e “Una brava ragazza”, che ben si adatta allo spirito dell’attore e cantante. Noemi mostra tutte le sue qualità di interprete su “Io lo so già” e “Vedrai vedrai”. Infine, a Kento vengono assegnate “Triste sera” e “Io sono uno”, rilette in chiave rap con libere variazioni sul tema del testo (decisamente meglio la seconda della prima). A Morgan il compito di chiudere la serata con “Ballata della moda” e “Il mio regno”: Morgan è un esperto del genere, e non delude il pubblico dell’Ariston. Meno riusciti i suoi bis, costretti forse da un anticipo sulla scaletta, e che costringono ai salti mortali l’orchestra e Ottolini.

Infine, del Tenco rimangono sempre ricordi sparsi: le incursioni della torinese Bandakadabra nei pomeriggi e nelle serate (fra cui si ricorda un bel medley di canzoni italiane “classiche”). Il bel recital in solo improvvisato del sax solista Simone Garino: costretto a intrattenere il pubblico rimasto ad aspettare fuori dall’Ariston in attesa dell’apertura delle porte, Garino ha tirato fuori dal cilindro due cover tenchiane e una di Bindi, rese con grande gusto e raffinatezza. Il ricordo di Gianmaria Testa. Le jam session a tarda notte, in cui Bobo Rondelli raggiunge Bocephus King cantando Elvis e The Band. E poi, le chiacchiere, gli incontri, gli aperitivi, lo scambio di consigli e di dischi… Il Tenco è forse soprattutto questo, quello che succede “intorno” all’evento-Tenco, prima e dopo l’Ariston.

Quando sono venuto al Tenco per la prima volta era il 2007. Ricordo chiaramente un’impressione (forse lo avevo anche scritto, nel pezzo che dovrei andare a cercare in qualche scatolone, essendo all’epoca uscito su una cosa vintage come una rivista di carta): quella di trovarmi al matrimonio di un lontano cugino di cui sapevo poco o nulla. Quindi la cordialità e il clima amichevole, sì, ma anche quella sottile sensazione di non c’entrarci poi molto, fra costanti riferimenti a persone che non si conoscono e battute che non si capiscono (o forse che non sempre fanno ridere).

Dopo un po’ di anni, lo devo ammettere, la mia sensazione si è un po’ attenuata. Capisco molte battute, a volte rido anche, saluto con un cenno del capo i volti ormai noti degli aficionados, e molti estranei di allora sono diventati amici di lunga data – anche se mi rimane difficile colmare il gap con chi il Tenco lo frequenta se non dal 1974, quasi (e cioè una buona parte del pubblico del Teatro Ariston).

Parlo di questo non perché io ritenga che la mia personale esperienza possa valere qualcosa di più di quella di chiunque altro, ma perché è difficile comprendere il Tenco senza un rimando a questa rete di rapporti umani, che ne costituisce l’essenza. È su questa rete che si è costruito il Tenco, e questa è la sua croce e la sua delizia.

Parlare del Tenco, raccontarlo, non è come raccontare un festival normale, ma perché in effetti il Tenco normale non è, né lo è mai stato. Le sbavature non sono mancate (ovviamente). Ma come a un parente (più o meno conosciuto), si tendono a magnificare del Tenco gli atteggiamenti che più infastidiscono, i tic che gli anni hanno codificato in comportamenti fissi, gli errori – o, al contrario, ci si dimentica di riconoscergli i successi che ottiene, dandoli per scontati.

Il dibattito sul ruolo e la funzione di quella che è, volenti o nolenti, l’istituzione centrale della canzone d’autore è più aperto che mai (come hanno mostrato articoli usciti negli scorsi mesi, e altri che seguiranno), e tale deve rimanere – perché il Tenco, in effetti, è anche questo dibattito.

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