L'americano e il comunista

Feldman e Nono tra le proposte della nona edizione di Firenze Suona Contemporanea

Recensione
classica
«…Luigi Nono vuole che tutti si indignino. John Cage vuole che tutti siano felici. Entrambe sono forme di dispotismo…».

Riflettevo, tra molte altre cose, anche su questa dichiarazione di Morton Feldman – in uno scritto del 1969 - durante le quattro ore e trenta minuti del suo “For Philip Guston” (per pianoforte, celesta, flauti, vibrafono e percussioni) comodamente adagiato su un cuscinone alle Murate di Firenze, per il secondo appuntamento della nona edizione di Firenze Suona Contemporanea. Certo, ci si può muovere, uscire, rientrare, sbirciare il telefonino, dormicchiare, ma pazienza e concentrazione vengono messe a dura prova, gli spunti sono molti e non solo musicali. Finisce che l’opera, sia per durata che per struttura, sognante e ripetitiva, funziona da colonna sonora, piacevole sottofondo di riflessioni e visioni di ogni coraggioso spettatore. Dietro i musicisti – il Flame Ensemble – scorrono senza soluzione di continuità le immagini di opere di Guston, ottima scelta che rimanda subito a cosa abbia stimolato il compositore americano, se pittura e pittori siano metafore della musica e dei compositori. Non solo, la sera dopo verrà proposto un concerto monografico su Nono. Provocazione, casualità, poco importa. L’avvicendamento è stimolante quanto basta.

Il rapporto di Feldman con pittori e pittura è conclamato. Se Wolpe, Varèse, più tardi Cage, sono i suoi mentori musicali, i rapporti amichevoli, costanti con Pollock, Rothko, Rauschenberg e lo stesso Guston sono fondamentali per lo sviluppo compositivo. Nell’opera ascoltata a Firenze emergono decisamente negli accordi leggeri, nei guizzi melodici quasi sottovoce, che si muovono come sagome, forme fluttuanti, tra respiri e silenzi, in una nebbia dal sapore spirituale, dove le ripetizioni con piccoli, impercettibili slittamenti ritmici, disegnano una ragnatela sospesa che ferma il tempo. Attraverso l’espressionismo astratto di Guston, Feldman traduce il piano pittorico nel centro tonale della composizione, nelle figurazioni e la dilatazione temporale crea spaesamento percettivo, così come richiede a musicisti e pubblico di fare appello alle proprie forze per eseguirlo e ascoltarlo.



Solo ventiquattro ore dopo nel Saloncino della Pergola l’omaggio a Luigi Nono. Un concerto monografico a dir poco emozionante. "Das atmende Klarsein" (1981/per flauto basso, coro e live electronics), "…sofferte onde serene…" (1976/per pianoforte e nastro magnetico)", "La fabbrica illuminata" (1964/per voce femminile e nastro magnetico). Opere raramente programmate nei cartelloni che meritano di essere conosciute, riascoltate e approfondite per la loro sorprendente attualità. Il percorso del compositore veneziano parte, dai primi anni Cinquanta, dalla pratica della tecnica seriale, ma sempre aperta e caratterizzata da un approccio originale di ricerca del suono sia nell’impiego dei materiali (testi poetici, canzoni popolari, rumori ambientali, testi di lettere…), che nell’uso delle tecnologie, in uno sperimentalismo mai autoreferenziale, sostenuto da una tensione etica non rivolta a un generico progresso culturale ma strettamente legata alla sua militanza comunista. Una componente ideologica, meno marcata nella maturità, che lo isolerà ma ne esalterà anche gli aspetti di messa in discussione costante della funzione della musica, dei compositori, anche dell’ascolto, nella realtà storico-sociale.

Il flauto basso di Roberto Fabbriciani di “Das atmende Klarsein” (qui nella versione senza coro) ne svela tutti i lati oscuri, inquieti, ma anche le dolcezze inaspettate. Lo strumento roteato nello spazio, dopo soffi, sibili, diffonde nello spazio armonici brillanti e variegati. Il live electronics – curato da Thorolf Thuestad – li cattura, li moltiplica, li deforma in una fusione di grande fascino. Ciro Longobardi ci ricorda con “…sofferte onde serene…” dedicato a Maurizio Pollini un’opera unica nel catalogo di Nono. Nell’esaltazione del carattere percussivo della tastiera con accordi complessi, densità polifoniche scurissime, quasi violente, la composizione si articola nella parte centrale in più pacati nuclei, isole astratte, elementi quasi descrittivi, spigolosi, che vagano misteriosi come a cercare una collocazione. Un profondo lavoro esistenziale.



Si chiude in bellezza con “La fabbrica illuminata”, composizione che mischia mirabilmente un fluxus di parole scelte e rielaborate, un coro che legge testi (Pavese, Scabia) che si trasformano in un pulviscolo di protesta, il tutto sommato ai rumori reali del ciclo di lavorazione dell’acciaio all’Italsider di Genova Cornigliano. Un mix sconvolgente. Su tutto questo ribollire del montaggio sonoro, la voce, ma anche il gesto e la presenza scenica, del soprano Silje Johnsen, apre come uno spazio di luce, di speranza, nel finale con i versi di Pavese: "…Passeranno i mattini / passeranno le angosce / non sarà così sempre / ritroverai qualcosa…".

Questa speranza, oggi, possiamo dire che non si sia proprio realizzata, termini come "operaio" e "fabbrica" suonano come vocaboli vecchi, ma le problematiche del mondo del lavoro, profondamente diverse dagli anni Sessanta, ci sono eccome. L’attualità dell’opera sta tutta qui. È emblematico che Nono metta Feldman nell’elenco dei suoi autori preferiti, mentre il compositore americano è molto critico con lui, non accetta il suo impegno civile, contesta l’idea di pensare che l’arte possa cambiare la società. L’arte per Feldman è solo una metafora, per Nono è pensiero, strumento di cambiamento.

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