Ad Aix, nonostante il dolore

Dopo la tragedia di Nizza: Händel, Mozart, Debussy e Stravinsky al Festival d’Art Lyrique a Aix-en-Provence

Recensione
classica
«L’arte può sembrare derisoria rispetto alla violenza e alla paura che colpiscono il nostro mondo. Per quanto sia fragile davanti all’oscurantismo e al terrore, ci offre materiale per la memoria, per la creatività e per la forza dell’utopia di cui abbiamo bisogno per sopravvivere alle deflagrazioni e inventare un futuro diverso.» Così ha scritto il direttore generale Bernard Foccroulle nel suo editoriale per l’edizione 2016 del Festival d’Art Lyrique di Aix-en-Provence, quest’anno funestato dalla tragica notizia del massacro nella non lontana Nizza.

E nonostante il dolore, la migliore risposta all’oscuratismo e ai suoi tanti apostoli rimane quella dell’arte e della musica che si celebra sulle scene della cittadina provenzale. «Una sola parola ci libera di tutto il peso e di tutte le pene di una vita. È la parola amore», dice Antigone e Foccroulle riprende quelle parole invitando il pubblico del Grand-Théâtre de Provence a un minuto di silenzio in omaggio alle vittime di Nizza. Antigone, figlia e sorella di Edipo, voce narrante nell’inedito dittico stravinskyano Oedipus Rex”completato dalla Sinfonia di Salmi realizzato da Peter Sellars per la Los Angeles Philharmonic nel 2010, ripreso e rivisto per Aix. Come già nella Perséphone vista lo scorso anno (ma anche delle Passioni bachiane realizzate per i Berliner Philharmoniker), Sellars opta per uno spettacolo dal segno marcatamente minimalista affidato per lo più alla suggestione dei movimenti coreutici dei componenti dei tre cori coinvolti (gli svedesi dell’Orphei Drängar e del Gustaf Sjökvist Chamber Choir e i bulgari del Sofia Vokalensemble) nella scena bianchissima con pochi oggetti “tribali” realizzati dallo scultore africano Elias Sime. L’accostamento fra i due pezzi funziona fino a un certo punto, nonostante l’intervento drammaturgico di Sellars che fa della presenza e delle parole di Antigone (la giovane Pauline Cheviller) il trait d’union fra la tragedia di Edipo e il suo epilogo con la morte dell’ex-sovrano ridotto a cieco mendicante, sublimata nell’esaltazione religiosa dei tre salmi. Di sicuro funzionava e benissimo l’esecuzione musicale affidata a Esa-Pekka Salonen. Alla testa dell’eccezionale Philharmonia Orchestra, il direttore finlandese firma un’esecuzione di precisione chirurgica che esalta la formidabile potenza espressiva delle due partiture stravinskyane. Al successo contribuiva un cast di grande qualità, con l’intenso Edipo di Joseph Kaiser, la misurata tragicità di Violeta Urmana nelle vesti di Giocasta e la prestigiosa presenza di Sir Willard White nel triplo ruolo di Creonte, Tiresia e del messaggero.

Esa-Pekka Salonen tornava a guidare la Philharmonia anche per quella che si proponeva come la produzione di punta dell’edizione 2016 del Festival (in coproduzione con il Wielki di Varsavia e il Beijing Opera Festival), cioè il Pelléas et Molisane firmato da Katie Mitchell, una presenza costante a Aix negli ultimi anni. Alle regie di Alcina di Händel, di Trauernacht sulle cantate di Bach, di The House Taken Over del giovane portoghese Vasco Mendonça ma anche del fortunatissimo Written on Skin di George Benjamin visto in mezza Europa, si aggiunge ora quella del capolavoro di Debussy. Mitchell ne fa uno spettacolo complesso, non sempre di chiara lettura, tutto risolto nella chiave del sogno della giovane sposa Mélisande. Insomma, una sorta di Mélisande nel paese delle meraviglie, che procede per salti logici, sdoppiamenti di personaggi e situazioni che, più che spiegare le oscurità del testo di Maeterlinck, ellittico e allusivo, le amplifica in un gioco di rimandi, certamente irrisolto per molti versi ma di intrigante fascino. Particolarmente complessa anche la scena congegnata da Lizzie Clachan: come per altre produzioni della Mitchell, una serie di ambienti di marcata impronta iperrealista rivelati in questo caso da un complesso gioco di sipari che spesso spariglia la connessione logica fra i diversi ambienti. Come in un sogno, appunto. Anche questo Pelléas poteva contare su un insieme di interpreti di eccezionali capacità. Barbara Hannigan, non era forse una Mélisande ideale dal punto di vista vocale, ma l’identificazione fisica con il ritratto della sposa inquieta disegnata dalla Mitchell era davvero impressionante. Così come lo erano le prove di Stéphane Degout, un Pélleas di rara profondità che confermava in pieno la grande sensibilità dell’interprete, e di Laurent Naouri, Golaud di provata esperienza. E tanto per non farsi mancare nulla, nel cast si trovava pure un solidissimo Arkel affidato a un wagneriano di razza come Franz-Josef Selig, per una volta non il solito monarca moribondo, e la corposa Geneviève di Sylvie Brunet-Grupposo, oltre a un Yniold di apprezzabile freschezza di Chloé Briot. Se lo Stravinky del giorno prima era di qualità eccezionale, Salonen riusciva perfino a fare anche meglio con un Debussy sezionato e ricomposto di chiarezza plastica e vigore insolito, lontanissimo da quello vaporoso e evanescente che si ascolta di norma. E se qualcuno pensa ancora al compositore come a una personalità isolata del Novecento musicale, non potrà che ricredersi ascoltando questo Debussy secondo Salonen ben inserito nelle correnti musicali europee di inizio Novecento. Anche in questo caso, un apporto fondamentale veniva dalla Philharmonia Orchestra, davvero in stato di grazia.

“Pelléas et Mélisande” – trailer

Naturalmente senza Mozart non c’è Aix, festival nato nel segno del genio salisburghese. Quest’anno la scena en plein air del Théâtre de l’Archevêché ospitava un nuovo Così fan tutte, che seguiva quello firmato da Patrice Chéreau nel 2005 (sicuramente non la sua produzione migliore per Aix). Anche per questa nuova edizione la scelta è caduta su una personalità divisa fra teatro ma soprattutto cinema, alla sua terza regia lirica, il controverso Christophe Honoré. L’assunto del regista è chiarissimo: Così fan tutte è una storia di brutalità e di dominazione degli uomini sulle donne. Di questo quindi si parlerà. Cancellati i paesaggi con vista Vesuvio, si veniva trasportati nell’Abissinia del 1938 occupata dalle milizie mussoliniane. Protetto da leggi e pratiche degli occupanti, Guglielmo non aspetta nemmeno la fine dell’Ouverture per violare una ragazza locale. E non è nemmeno questione di machismo o di misoginia, visto che le due “dame ferraresi” non sono poi tanto meglio dei loro amanti: Dorabella è una specie di ninfomane e, complice la sorella, si toglie più di un capriccio con un uomo di colore. E anche Despina non si diverte se son meno di due “à la fois”. In controtendenza con la convenzione contemporanea di non far travestire i due soldati, Guglielmo e Ferrando si ripresentano nerissimi alle due donne ma la finzione cade presto quando Ferrando rivela (involontariamente?) la mascherata a Fiordiligi, che comunque non ci pensa poi tanto a tradire l’infedele Guglielmo. La scommessa è un puro pretesto e l’infelicità trionfa, come altrimenti non potrebbe essere. Così facciamo tutti, e non solo in Abissinia. Più di uno spettatore storceva il naso, ma lo spettacolo aveva una sua ruvida coerenza oltre che un certo gusto per la ricostruzione storica (le scene coloniali erano di Alban Ho Van e i costumi di Thibault Vancaenenbroeck). Decisamente deludente, invece, la realizzazione musicale, affidata a un Louis Langrée particolarmente noioso e poco ispirato, nonostante avesse fra le mani la solitamente brillante Freiburger Barockorchester, in questa prestazione davvero ai minimi sindacali. E non troppo meglio faceva il cast, nel complesso abbastanza debole, che dava l’impressione di essere stato scelto più per le caratteristiche fisiche che per quelle vocali. Tralasciando la disastrosa prova di Rod Gilfry come Don Alfonso (davvero non si trovava un caratterista migliore?), il quartetto formato da Lenneke Ruiten (Fiordiligi), Kate Lindsey (Dorabella), Joel Prieto (Ferrando) e Nahuel di Pierro (Guglielmo) risultava terribilmente noioso, imperdonabile in questo Mozart. Si salvava solo la Despina di Sandrine Piau, ancora in smagliante forma vocale e sempre incisiva nella presenza scenica. Funzionale (alla lettera!) alla messa in scena di Honoré il coro della Cape Town Opera. Nel complesso, è sembrata la produzione più debole dell’edizione 2016.

“Così fan tutte” – trailer

Decisamente meglio la produzione barocca vista ancora all’Archevêché: Il trionfo del Tempo e del Disinganno. Diventato curiosamente frequente nelle ultime stagioni sulle scene europee (e arrivato persino alla Scala in questa stagione nell’allestimento realizzato nel 2003 da Jürgen Flimm per l’Opera di Zurigo), l’oratorio giovanile di Händel su un libretto del Cardinale Benedetto Pamphili, certamente moraleggiante sul tema “chi ha tempo non aspetti tempo” ma non particolarmente cattolico-militante. Invece, almeno nelle sue dichiarate intenzioni registiche, il polacco Kzysztof Warlikowski parte lancia in resta contro la forza soverchia della Chiesa e il suo potere illimitato sulle giovani coscienze, specialmente nel suo paese di orgine. Poiché fra il dire e il fare magari non c’è davvero il mare ma qualcosa che porta fuori strada, Warlikowski sembra piuttosto indossare la tonaca di un moderno Savonarola e ammonire sui rischi che corre la gioventù, sinonimo di bellezza. Per dire brevemente della regia, si immagina una coppia giovane (lei è appunto Bellezza), un ballo sfrenato in discoteca, qualche pillola di troppo e lui ci resta secco. Lei, viso rigato di rimmel e corpo scosso da conati di vomito, non si dà pace mentre la coppia (genitoriale?) di Tempo e Disinganno la martellano sulla fugacità della giovinezza. Nonostante le parole rassicuranti e le molteplici tentazioni di Piacere, una sorta di dandy in pantaloni attillati, la giovane cede al Tempo, viene avvolta in una virginale tunica bianca e … si taglia le vene. Il conto di Warlikowski è quindi regolato. Detto che, particolarmente per questo oratorio, tutti gli allestimenti visti finora ci sono sembrati pleonastici e questo certamente non si sottrae, Warlikowski fa soprattutto il verso a se stesso ricorrendo ai suoi più caratteristici cliché, complice l’inseparabile scenografa e costumista Malgorzata Szczesniak, che gli allestisce una vera e propria platea di sala cinematografica tagliata da una scatola di vetro che serve al Piacere per mettere in scena le sue lusinghe. Anche il segno estetico (vintage anni ’70) è coerente con l’universo estetico del regista polacco, così come l’inserto cinematografico “concettuale” di Jacques Derrida che discute con Pascal Ogier di fantasmi e la presenza, fra varie mannequin disposte sulle poltrone di scena, della scrittrice Christine Angot, testimone muta di una giovinezza rubata dalle violenze del padre. Malgrado tutto, lo spettacolo non nuoce alla musica che trionfa sulla vanità della scena (diavolo di un Händel!). Questa volta in buca c’era il Concert d’Astrée guidato dalla sua fondatrice e esperta barocchista Emmanuelle Haïm, generosa nelle dinamiche ma un po’ tirata sul suono, che risultava un po’ troppo secco (ma va detto che lo spazio aperto non aiutava). Sul quartetto di interpreti, tutti specialisti rodati, si imponeva soprattutto la Bellezza di Sabine Devieilhe per freschezza e autorevolezza, mentre Franco Fagioli (Piacere) era meno brillante che in altre sue prove recenti, Sara Mingardo (Disinganno) si faceva ammirare specialmente per il bel timbro brunito e Michael Spyres (Tempo) si inerpicava con agio per le asperità del ruolo ma la cui vocalità corposa denunciava lo rende certamento più adatto a un repertorio più tardo.

“Il trionfo del Tempo e del Disinganno” – trailer

«Ogni comunità di spettatori riuniti per assistere a un’opera d’arte costituisce un’esperienza della nostra umanità condivisa. Questa esperienza è più preziosa che mai», ha scritto ancora Foccroulle. L’attenzione e la grande partecipazione a tutti gli eventi del Festival così come lo straordinario calore con cui il pubblico ha salutato tutti gli spettacoli era la testimonianza più viva di questa umanità.

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