Il mondo ad Abu Dhabi

Lang Lang e l'Orchestre de Paris al Festival

Recensione
classica
Nel sontuoso auditorium dell'eptastellato Emirates Palace Hotel di Abu Dhabi c'è il pubblico delle grandi occasioni, per il festival dell'emirato che quest'anno celebra il suo ventennale. C'è tutto il melting pot internazionale che costituisce la maggioranza della popolazione di questo piccolo ed opulento bengodi: l'attesa è per Lang Lang, la star pianistica internazionale del momento. C'è un susseguirsi di discorsi prima in arabo, poi in inglese (la vera lingua ufficiale qui) per la voce di una elegante signora che, ispirata, presenta l'artista e il programma in una lunga prolusione, con un tono ed un'enfasi quasi scespiriani.

Quindi il concerto con in programma brani che fanno parte di un collaudato repertorio dell'interprete cinese: Le stagioni di Cajkovskij, il Concerto italiano di Bach e i quattro Scherzi di Chopin. Le Stagioni cajkoskiane danno modo a Lang Lang di presentarsi in una forma quasi domestica, per iniziare a disegnare la variopinta tavolozza di colori, che caratterizzano questa composizione, non tra le più celebri del compositore russo, ma che egli ha contribuito divulgare in forma più estesa con numerose esecuzioni e registrazioni. Un insieme di quadri, i dodici mesi dell'anno, che gli consente pian piano di mettere in evidenza tutto il suo virtuosismo: così è da un incipit di estrema delicatezza, quasi esageratamente lento, di un “Gennaio” morbido e delicato, che viene delineando un percorso in cui, con grande abilità, gestisce repentini cambi agogici e dinamici, con i suoi proverbiali tempi rapidissimi, nel carnevale del “Febbraio” o nel mietitore di “Luglio”, dove riesce a calibrare sapientemente pulsività e leggerezza; quindi indugiando in ampie dilatazioni e con pianissimi 'estremi' negli episodi lenti, come la notte stellata di “Maggio o la barcarola di “Giugno”. E' tutto sommato un Lang Lang quasi pacato quello di queste pagine cajkoskiane, che si muove su un piano interpretativo che sembra voler puntare ad un suono interiore, misurato.

Il Bach di Lang quindi - attacco repentino e subitaneo del primo tempo - è sicuramente un Bach, algido, di estrema chiarezza dove, nonostante la pulsività marcata e le velocità negli allegri, fa percepire nitidamente i disegni imitativi, l'incalzare possente dei bassi e le 'terrazze' di scarti dinamici perfettamente delineate, così come la cantabilità dell'Andante; una rincorsa alla rapidità che forse sacrifica una dimensione meditativa e speculativa che sono proprie delle pagine bachiane. Così in Chopin coinvolgono e affascinano il suo virtuosismo, le sue corse, la rapsodicità dei suoi scatti, tra volate e fraseggi ritenuti, così come l'estrema leggerezza e liquidità di certi passaggi. Nel secondo scherzo, ad esempio, riesce a sviluppare una dimensione narrativa, nel terzo poi ad intensificare una lettura 'appassionata', per come, in un procedere di straordinaria fluidità, possa incorniciare nettamente tratti rapsodici e contrasti motivici. Efficace creatore di pathos, Lang Lang, con la sua perfezione, con il suo approccio muscolare pare voglia, sicuramente, stupirci, trascinandoci nel suo vortice, ma in parte rinunciando a commuoverci, a meditare.

Appuntamento tutto francese con l'Orchestre de Paris, la sera dopo, di questo festival che quest'anno ha voluto dedicare una particolare attenzione al repertorio d'oltralpe. In programma, Berlioz, Lalo e Saint-Saëns, al podio l'estone Paavo Järvi, totalmente immerso e coinvolto nell'enfasi e nel gusto che convenzionalmente si associa alle tradizioni musicali e interpretative francesi, con un pathos direttoriale particolarmente efficace e personale. Già nell'ouverture di Berlioz evidenzia notevole perizia nel gestire una 'nordica' e pulsiva determinazione - fin dall'atacco molto deciso - con un'ampollosità, ariosa, di un gesto ampio ed estremamente fluido, quindi con i colori e i timbri dei 'fuochi d'artificio' propri di questo pezzo. Il gusto timbrico e sonoriale di Paavo riemergono, nel successivo concerto per violoncello di Lalo, con Xavier Phillips solista. Questi esordisce con una sonorità morbida, quasi introversa ma, nel corso dell'esecuzione, viene acquistando, via via, corposità, fino a farsi sentita e appassionata; precisi i ceselli contrappuntistici con i soli orchestrali nelle parti cantabili, enfasi crescente e virtuosismo danzistico del finale. Virtuosismo orchestrale, ampollosità e marcato gusto timbrico - che anche l'organista Thierry Esaich sa calibrare sapientemente - sono quindi gli ingredienti che si innestano con facilità e gusto per l'eccesso in questa originale sinfonia/concerto di Saint-Saëns, dove atmosfere ricche di pathos si innestano in un gioco di rimandi, densamente contrappuntistico, per sfociare in un gesto retorico e in un clangore di grande effetto, che entusiasma il numeroso pubblico. E lo diciamo senza snobismo, ma forse - almeno dopo gli adagi!- sarebbe opportuno che qualcuno desse qualche indicazione di non applaudire tra un movimento e l'altro.

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