La banda di Platel

“En avant, marsch!” di Alain Platel e Frank Van Laecke allo Schauspiel di Francoforte

Recensione
classica
Un epitelioma, un pirandelliano “fiore in bocca” segna il distacco da un amore. “En avant, marsch!” racconta anche di un distacco per la stessa malattia: quello di un trombonista dal suo strumento e il suo disperato, ma non triste, congedo dalla vita. Come già per lo struggente “Gardenia” di qualche stagione fa, l’ultima produzione di Alain Platel con la complicità di Frank Van Laecke e Steven Prengels per gli adattamenti musicali, ancora una volta racconta qualcosa di grande a partire da un microcosmo usando il linguaggio universale della musica. Ma soprattutto lo racconta scompaginando i tradizionali confini fra generi, come fa da trent’anni fa Platel, coreografo “anomalo” di corpi tormentati e torturati (e per questo spiritualmente molto vicino all’esperienza Pina Bausch).

Se in “Gardenia” l’ispirazione della metamorfosi di otto corpi ormai invecchiati in creature di sogno nasceva dalla chiusura di un locale per “drag queen” di Barcellona, “En avant, marsch!” racconta di un’altra fine, quella della relazione amorosa fra il protagonista (il corpulento Wim Opbrouck, direttore di NTGent coproduttore dello spettacolo con les ballets C de la B di cui Alain Platel è l’anima) e il suo suo strumento e quindi l’addio alla sua banda, luogo metaforico della società nel suo insieme. Giunto ormai alla fine di una lunga tournée europea, che ha toccato anche l’Italia con tappe a Torino e Modena, “En avant, marsch!” approda allo Schauspiel di Francoforte su invito di quella speciale fucina di creatività che è il Mousonturm. Sulla scena una distesa di sedie vuota. Da solo, il vecchio trombonista entra con i piatti e un mangianastri che diffonde il suono degli archi sottili che aprono il “Lohengrin”. Impaziente, cerca il punto in cui può rimettersi in gioco con il clangore dei piatti. L’uomo è un escluso che urla al microfono la sua condizione di malato con frasi oscene e grottesche (“When you are in deep shit, every fart is a fresh wind”) e azioni scomposte. “L’uomo è nella più grande miseria. L’uomo è nella più grande pena”: uno svaccato drappello di ottoni intona il mahleriano “Urlicht”, mentre due majorettes stagionate (Chris Thys e Griet Debacker) indossano la scintillante divisa per una cerimonia che ha molto di estremo. Gli altoparlanti diffondono tracce sonore diverse (Mahler, Bach, Schubert), forse frammenti sparsi della memoria di un (quasi) clown. E finalmente entra la grande banda (che a Francoforte è quella di Ludwigsburg-Oßweil), con quelle divise esagerate fra il militaresco e il circense, che fa sentire la sua voce possente e prepara la grande cerimonia della fine. Dopo un clownesco “Miserere” dal “Trovatore”, ancora Verdi per la grande marcia funebre sul tema (stravolto) della danza dei piccoli schiavi mori dall’ “Aida”. La grande banda lentamente abbandona la scena a ritmo di marcia e lascia spazio a una frenetica session sui ritmi balcanici di “Ah Ya Bibi”. Si prende la scena Hendrik Lebon, doppio giovane e ferinamente vitale del vecchio trombonista, con una danza sfrenata e dionisiaca. Il suono si dissolve in un soffio e la coreografia per quei due torsi nudi di Lebon e Opbrouck – l’uno di giovanile sensualità e l’altro di senile decadenza – esibiti ai nostri sguardi restano come “memento mori” di straordinaria plasticità. E poi ancora la banda con quel suo suono pieno che rimane sospeso mentre si spengono luci della scena. Lo spettacolo, come la vita, continua. “En avant, marsch!” è soprattutto un omaggio al mondo delle bande ma anche, nelle parole del capobanda Prengels, alla musica “come metafora di qualche cosa che va al di là dell’esistenza aneddotica di una banda. Qualche cosa di più grande, la società forse o la vita nella sua interezza.”

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