Lyon riscopre "La Juive”

Al Festival "Pour l'humanité”

Recensione
classica
Il festival dell'Opéra National di Lione - che è profondamente incardinato nella stagione e non è una vetrina per mettersi in mostra - era intitolato quest'anno "Pour l'humanité", che è lo stesso che dire "contro la disumanità", che nel secolo appena trascorso ha raggiunto con la shoah livelli che credevamo irripetibili, mentre ora ci accorgiamo sgomenti e impotenti che il nostro secolo - cioè noi - sta ripetendo simili orrori. Quindi non è retorico né superfluo riproporre questi temi al pubblico attuale.

A inaugurare il festival è stata "La Juive", grand opéra in cinque atti di Jacques Fromental Halévy su libretto di Eugéne Scribe, andato in scena all'Opèra di Parigi nel 1835, con un successo che gli assicurò centinaia di repliche nella sola capitale francese e altre innumerevoli in tutto il mondo, finché nel 1933 l'avvento al potere del nazismo non la espulse dai teatri, e non solo da quelli tedeschi, ma - fatto veramente inspiegabile - da quelli del mondo intero, compresi i francesi, (non è infatti una coincidenza che l'ultima replica all'Opéra di Parigi fosse nel 1934). Dopo alcune sporadiche riprese, la sua rinascita è iniziata a Vienna nel 1999, poi ci sono state le riprese a Parigi, Nizza, Mannheim, Norimberga, cui se ne aggiungeranno altre nei prossimi mesi, cosicché si può dire che il ritorno de "La Juive" tra i capolavori dell'opera dell'Ottocento sia ormai cosa fatta. L'allestimento lionese ha ridisegnato l'opera, non solo per renderne sopportabile la durata al pubblico attuale, che, non essendo più formato da aristocratici, arriva a teatro già affaticato da una giornata di lavoro, ma anche per alleggerire l'ingombrante cornice del grand opèra e concentrarsi sull'essenza di quest'opera che anche Mahler ammirava. Sono state eliminate le danze, ma è sparita anche la cabaletta di"Rachel, quand du Seigneur", l'aria più famosa dell'opera. Le scene di massa sono state ridotte e sono stati praticati numerosi piccoli tagli interni ai vari numeri. Considerando che la filologia è cosa diversa da uno spettacolo, tali tagli sono stati leciti e perfino utili. "La Juive" ne è venuta fuori come un'opera in cui non mancano le scene di massa potenti e drammatiche, ma il cui focus è la tormentata vicenda dei personaggi, che - nonostante il ricorso di Scribe ad alcuni vecchi arnesi teatrali - è sostanzialmente qualcosa di unico nel panorama operistico ottocentesco.

Su questo nucleo drammatico - realizzato con grande sensibilità da Halévy, che era ebreo come i due protagonisti-vittime di quest'opera - si concentra anche l'allestimento firmato da Olivier Py per la regia e da Pierre-André Weitz per le scene e i costumi. La scena è unica ma i suoi elementi si muovono in continuazione, ricomponendosi in modo sempre diverso: è una specie di carcere piranesiano, con al centro una complicata struttura di scale e ai lati altissimi muri formati da librerie stracolme di vecchi volumi. Talvolta quest'ambiente scuro e opprimente si apre sul fondo, ma solo per far apparire un desolato paesaggio di alberi nudi e contorti. Come la scenografia anche la regia è essenziale e può così andare al cuore del dramma, si tratti delle scene di cruda violenza contro gli ebrei o della celebrazione della Pasqua ebraica o degli affetti familiari di Eléazar e Rachel. Fanno eccezione i momenti in cui è in scena la principessa Eudoxie, ironicamente trasformata in una biondissima vamp hollywoodiana, che si aggira (s)vestita in modo molto sexy o si sdraia languidamente su un letto coperto da lenzuola rosse: potrebbe sembrare una nota stonata in un palcoscenico su cui l'unico colore ammesso è il nero (oltre al bianco della veste del Cardinale Brogni, che somiglia molto a papa Francesco), ma introduce quell'elemento di contrasto che è un ingrediente immancabile della ricetta del grand opéra e che qui ha anche la funzione drammatica fondamentale di far risaltare per contrasto la pudicizia e l'osservanza dei precetti religiosi dell'ebrea Rachel. Alla prima del 1835 "La Juive" ebbe come protagonisti alcuni dei più grandi cantanti nella storia dell'Opéra di Parigi: Cornélie Falcon come Rachel, Adolphe Nourrit come Eléazar e Nicolas Prosper Levasseur come Brogni. A Lione si è messo insieme un cast meno stellare, ma ognuno è adeguato al suo personaggio. Nikolai Schukoff è Eléazar, saldo nella fede nel suo dio ma reso aspro dalle ingiustizie e tormentosamente diviso tra l'amore paterno e l'odio per i suoi persecutori. Rachel Harnisch è la Rachel, liliale fanciulla resa forte dalle persecuzioni, ma che non resiste al crudele tradimento da parte dell'amato Leopold, qui interpretato da Enea Scala, che eleva al rango di protagonista un personaggio spesso relegato al ruolo di scialbo comprimario. Vincent Le Texier è ideale nel ruolo del "vilain" Ruggiero e Sabina Puértolas sta benissimo nelle vesti succinte della sensuale (ma non priva di sentimento) principessa Eudoxie, cui giova non essere affidata alla solita voce ultraleggera, sebbene il soprano spagnolo non sia totalmente a sua agio nelle agilità della parte. Last but not least Roberto Scandiuzzi porta una nota grave e solenne nella parte di Brogni, contraddittoria figura di cardinale e padre. Daniele Rustioni domina splendidamente la partitura nelle scene di massa, senza eccedere in decibel, ma si fa particolarmente apprezzare per la delicatezza nei momenti di drammaticità più interiorizzata. Era il primo spettacolo da lui diretto all'Opéra di Lione dopo l'annuncio della sua nomina a direttore stabile del teatro a partire dal 2017 ed è stato significativamente accolto da applausi molto calorosi.

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