L'eccezione Stiffelio

A Venezia e a Francoforte due allestimenti dell’opera verdiana

Recensione
classica
È accaduto a Venezia trent’anni fa il tentativo scientificamente più significativo di rivalutare lo “Stiffelio” verdiano e di riportarlo stabilmente nel repertorio dei teatri. L’azione combinata di una riproposizione scenica dell’opera e del suo «doppio» “Aroldo”, altrettanto sciagurato quanto a fortuna scenica, e di una riflessione musicologica che rimetteva in discussione un giudizio sostanzialmente liquidatorio delle esperienze verdiane precedenti la trilogia popolare. Artefice della riscoperta il musicologo Giovanni Morelli che in un acuto saggio recuperato per l’occasione dal Teatro La Fenice scriveva: “l’opera resta in uno strano centro (cronologico e artistico) del corpus verdiano a fare da testimone della profonda complessità o della poetica generale dell’«originalità» romantica dell’autore.” In effetti, nella cronologia verdiana “Stiffelio” si colloca fra “Luisa Miller” del 1849 e “Rigoletto” del 1851, ossia proprio nel discrimine fra la produzione giovanile e quella generalmente riconosciuta come matura. “Stiffelio è buono ed interessante” scriveva Verdi in risposta a Piave che gli proponeva quel soggetto insolito e audace da una pièce francese fresca di debutto, Le pasteur di Eugène Bourgeois: una moglie adultera per sbaglio (“Non volente fui nel lezzo / trascinata dall'error”), un marito predicatore di una setta protestante diviso fra sete di vendetta (“Il mio pie’ grave; ti schiaccerà!”) e compromesso del divorzio (“Opposto il calle che in avvenire / La nostra vita dovrà seguire”), un padre omicida più che per lavare l’onore della figlia per nascondere le prove (“Chi poteva il disonore / rivelar, estinto già”), e un amante insulso trascinato in duello da un’offesa vagamente ellittica (“nobil conte Raffaello / tu non sei che un trovatello!”) e quidi eliminato senza convenevoli né conseguenze. Religione e sesso: binomio audace anche oggi ma che allora indusse la censura a usare la mano pesante con più di un danno alla tenuta drammatica e forse alla buona ricezione del lavoro.

Trent’anni dopo, malgrado perorazioni autorevolissime, “Stiffelio” resta ancora un’eccezione, sospesa nel limbo delle opere che ancora attendono una piena riabilitazione. In questa stagione però l’opera verdiana è stata riproposta in due recenti allestimenti al Teatro La Fenice e all’Opera di Francoforte sul Meno, complice forse un certo clima favorevole al “giovane Verdi”, suggellato dalla santificazione scaligera della “Giovanna d’Arco”, auspice autorevolissimo Riccardo Chailly. Malgrado non poche ombre, proprio nel proporsi come non-eventi, queste due produzioni danno forse maggiormente la misura della lenta ma inesorabile fine dell’eccezione “Stiffelio”.

Contrasto fra luce e ombra

Quasi interamente affidato alle sofisticate luci di Guido Petzold, anche autore degli essenziali elementi scenici, l’allestimento veneziano firmato da Johannes Weigand. Le luci dense e fortemente contrastate come metafora dei conflitti del trio dei protagonisti sono l’unico segno visibile di una regia che altrimenti rimane fra i rassicuranti clichés del genere melodrammatico: il furore trattenuto per Stiffelio, il tormento interiore per Lina, la violenza di Stankar, gli altri essendo pure presenze funzionali alla vicenda. Priva di un “concetto” forte che ne guidi la lettura, la “scuola tedesca” di regia (solite eccezioni a parte) mostra tutte le sue approssimazioni, soprattutto sul piano della direzione attoriale. Resta qualche immagine forte – l’apertura del secondo atto nell’antico cimitero, il finale col sermone dell’adultera biblica inondato di luce mistica – ma è pochino. Più decisa la direzione musicale affidata alla competenza di Daniele Rustioni. Convinto assertore del valore di quest’opera (si veda l’intervista negli approfondimenti Rustioni), il direttore milanese tiene sempre alta la temperie drammatica e la tensione, qui meno appariscente che in altre opere anche del Verdi giovane, sottolineando gli aspetti più innovativi, specialmente presenti nel secondo e terzo atto (i più convincenti). Lo sostiene l’Orchestra del Teatro La Fenice in ottima forma. Sul piano vocale purtroppo non tutti i conti tornano. Molto positiva la prova del tenore Stefano Secco: timbro chiaro, fraseggio elegante, protagonista maturo che non soffre per mancanza di pezzi classici “da tenore”. Meno convincenti Julianna Di Giacomo, una Lina monocorde, e soprattutto Dimitri Platanias, scenicamente inerte e musicalmente legnoso. Comprimari tutti all’altezza con le punte di Francesco Marsiglia e Simon Lim. Di peso il contributo del coro.

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Perdere la testa per l’amante

Regia di segno completamente diverso quella di Benedict Andrews per la scena di Francoforte. Già la scena disegnata dal veterano Johannes Schütz – palcoscenico pressoché vuoto, occupato da una chiesa/croce dalle pareti semitrasparenti – marca con un segno nitido e deciso lo spazio. C’è molto il senso opprimente della religione. Il senso di colpa è incombente come la grande croce che sovrasta e schiaccia gli individui. Snodo dei conflitti è Lina, qui decisamente vittima. Un’ombra di incesto rende più credibile la furia ultrice del padre (che in un eccesso “gore” del tutto gratuito porta la testa mozzata dell’amante a Lina, ridotta a una sorta di Lisabetta da Messina) ma sbilancia il centro drammaturgico e schiaccia Stiffelio, il cui tormento e il perdono finale perdono di senso. Più coraggiosa di quella veneziana, la regia manca tuttavia di un disegno coerente che faccia tornare tutti i conti. Anche dal punto di vista musicale, l’edizione di Francoforte presenta non poche zone d’ombra, in primis una distribuzione vocale nel complesso ben al di sotto di un accettabile standard verdiano. Intendiamoci: non si parla di mezzi ma di stile. Il protagonista Russel Thomas sfoggia un’esuberanza vocale ai limiti dell’incontinenza per buona parte dell’opera, venendo a patti con un’idea di interpretazione solo verso il finale. Sara Jakubiak regge bene sul piano scenico ma è spesso in affanno e deficitaria nella dizione che resta ai limiti del comprensibile (siamo più dalle parti del solfeggio). Dei tre, Dario Solari è l’unico ad avvicinarsi allo stile verdiano ma manca del peso drammatico che ruolo di Stankar vorrebbe. Pressoché inesistenti gli altri. Compensa l’ottima prova del coro e la direzione d’orchestra di Jérémie Rohrer che si appoggia sulle collaudate qualità della Museumorchester. Poco sensibile al dibattito se si tratti di un Verdi maggiore o minore, Rohrer ha l’indubbio merito di restituire densità e corposità alla scrittura verdiana esaltando, anche in una partitura non del tutto compiuta come “Stiffelio”, le infallibili intuizioni del suo genio teatrale.

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