A che servono quindici anni di vita

Si chiude Club To Club 2015: Thom Yorke e gli altri

Recensione
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Alla fine, è arrivato veramente il giorno di Thom Yorke a Club To Club. E ha diviso il pubblico. Genio o fallimento? Set memorabile o segno evidente dell’inesorabile decadenza di un mito? I commenti – fra internet e mondo reale – si sono (più o meno come sempre) polarizzati, senza quasi prendere in considerazione la risposta più ovvia: non è stato un set perfetto, non è neanche lontanamente stato un disastro.

Yorke è arrivato sul palco con mezz’ora-quaranta minuti di ritardo, in un Lingotto strapieno e sold out da tempo. Sul palco con lui il produttore Nigel Godrich e Tarik Barri, i cui visuals – su tre grandi schermi dietro i musicisti – sono parsi il vero valore aggiunto del set. Set che è partito alla grandissima, con “The Clock”, dal primo disco solista del cantante dei Radiohead (il forse sottovalutato The Eraser, che è prossimo a compiere dieci anni: uscì nel 2006!), e che infila subito “Black Swan”, dallo stesso disco.



Nonostante qualche problemino tecnico sulla voce, un po’ nascosta all’inizio, con Yorke che ogni tanto fatica a trovare l’intonazione, l’attacco è fulminante. Il limite emerge piuttosto alla distanza: Yorke sembra voler prendere le distanze dalla forma-canzone (che è un po’ come se Miles Davis volesse prendere le distanze dagli assoli di tromba), e non sempre nel farlo rende onore al proprio materiale. Né i brani nuovi sembrano ovviare a questo inconveniente. Il set è costruito come un flusso unico – più che ragionevole in un contesto come quello di Club To Club – ma alla lunga risulta un po’ monocorde, sempre giocato com'è su beat presentissimi e più “cattivi” rispetto ai dischi. A volte, cioè, si perde per strada la dolcezza e la malinconia delle canzoni. Insomma, voto 7: si applica, ma l’aspettativa era alta, e il materiale avrebbe giustificato una cura diversa.

(Alla fine, il vero colpo di genio della serata lo centra Jamie xx, uscito sul main stage subito dopo: ha aperto il suo dj set con “Could Heaven Ever Be Like This” di Idris Muhammad… tutti a ballare e silenzio. Spazio anche per un pezzo dei Radiohead – omaggio forse cattivello?).



Qualcuno che ha rinunciato al lungo set di Thom Yorke è riuscito a spostarsi nella non vicina Sala Gialla per seguire Todd Terje (del cui set mi hanno detto un gran bene) e altro che mi sono perso. Per quanto mi riguarda, i Battles – saliti sul palco principale verso le 22.45 (l'inizio della serata per me) – sono stati il top del venerdì. Su disco talvolta il loro math-rock cade nel tecnicismo fine a se stesso, come se dovesse ricordare a tutti quanto bravi siano i tre musicisti. Dal vivo il gruppo mostra una faccia diversa: ballabile, innanzitutto, e non priva di ironia e soluzioni inattese. In fine di set ricompare anche il classico “Atlas”, dal primo disco. Sempre un gran pezzo.



Altre cose sparse: Four Tet ha proposto un bel set, più ballabile e prevedibile, ma meno vario rispetto alle sue prove più recenti. Il pubblico è giustamente esploso in un applauso quando è apparsa la voce indiana che apre la traccia “Morning”, dall’ultimo disco. Omar Souleyman ha fatto il suo nella sala gialla, senza grandi sorprese. Oneohtrix Point Never ha suonato sabato, con il padiglione 1 ancora in parte vuoto. Le sue sequenze disgregate di accordi su un muro di glitch passano dall’epico al melanconico, ma al Lingotto ha probabilmente abusato del vocoder… A seguire, grande e violentissimo set per Andy Stott, con il pubblico che – alla fine – arriva. E poi, come di ogni festival rimangono appunti sparsi, impressioni, conversazioni…



Un bilancio conclusivo dovrebbe prendere in considerazione anche le solite riflessioni sulla sopravvivenza… Prima dell’inizio, la direzione artistica ha portato il tema in consiglio comunale, rivelando le proprie difficoltà. E questo nonostante Club To Club si basi quasi esclusivamente su sponsor privati, e faccia sempre ottimi risultati con la biglietteria (quest'anno sempre sold out, sabato escluso). Che il festival sia diventato negli ultimi anni l’evento con il più credibile profilo internazionale di Torino, e uno dei top festival di elettronica (e dintorni) in Europa, non ci piove. E che un’attenzione crescente da parte delle istituzioni debba essergli riservata è così ovvio che non è neanche necessario argomentare.

Quello su cui è utile riflettere è su come Club To Club sia arrivato a questi risultati. Le risposte che mi do sono due.

Uno: con la continuità del lavoro. I festival crescono poco a poco, e ci mettono anni per rodare un meccanismo tale da farli funzionare bene, da attrarre pubblico (anche nuovo), e da sopravvivere. Club To Club lo ha potuto fare, per vari motivi.

Due: con la direzione artistica. Le direzioni artistiche si possono contestare e criticare. Ma se hanno una linea coerente vengono fuori alla distanza, instaurano un rapporto di fiducia con il proprio pubblico, e mettono in atto il migliore dei circoli virtuosi.

Cioè, alla fine, arrivano a creare il proprio pubblico. A Club To Club ci vanno gli aficionados del festival. Quelli che seguono la scena elettronica. E, esattamente come al Sònar di Barcellona, ci vanno anche gli appassionati di musica che non si interessano più di tanto di elettronica per i restanti 360 giorni all’anno. Ci vanno perché sanno di poter scoprire qualcosa di nuovo, e perché confidano che gli verrà presentato nel programma. Io ci vado, prima che come giornalista, come appassionato di musica non esperto di elettronica, e ci vado con questo spirito. E negli anni ho sentito, e a volte scoperto, cose che amo ancora adesso, e per cui mi sento sinceramente grato alla direzione artistica. Quindici anni di vita servono anche a questo.

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