I pubblici dell'elettronica

Club to Club 2015 al via con Apparat e Floating Points

Recensione
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Quando arrivo davanti al Conservatorio la coda per entrare è ordinata neanche fossimo in Inghilterra (forse nel rispetto dell’internazionalità del Festival, penso) e parte quasi dal centro della piazza. I due ragazzi giovani di fronte a me chiacchierano. Nei trenta metri che dividono il monumento a La Marmora dalla porta d'ingresso i due parlano di – nell’ordine: Petronio e come tradurlo, la poesia combinatoria, Sanguineti, e arrivano fino alla Critica della ragion pura (ho preso appunti perché volevo riprovare a ricostruire il filo del discorso, che in quel momento mi pareva perfettamente coerente, ma che ora mi sfugge).

Mentre parlavano, mi è tornata in mente una polemica di fine estate, scatenata da un articolo sulla techno pubblicato sul “Quotidiano Nazionale” e firmato da una nota musicologa. Erano i giorni della chiusura del Cocoricò per la morte di un sedicenne (trovate articolo e una lunga replica qui).

«La techno – scriveva la musicologa – esercita sui giovani un fascino irresistibile. Ritmo percussivo in 4/4, iterazione ossessiva dei moduli armonici e melodici, suono prodotto per sintesi elettronica, incalzare implacabile dei bassi, volume assordante: il mix induce un effetto infallibilmente ipnotico con conseguente affievolimento della coscienza». Ecco, quando uno dei due ragazzi ha spiegato all'altro che Kant usa il concetto di “ragione” senza mai definirlo veramente, mi è venuto in mente proprio questo passaggio sull'affievolimento della coscienza.

I due studenti di filosofia non sono il pubblico standard di Club to Club, potrebbe obiettare qualcuno. Probabilmente è vero: di quel pubblico faccio parte anche io, e non saprei dire nulla di interessante sulla poesia combinatoria. Forse, dirà qualcuno, il pubblico del Cocoricò non è lo stesso di Club to Club, e i giovani intellettuali non vanno a ballare la techno in riviera.

Davvero? Siamo sicuri?
La cosa interessante di Club to Club (e di altri festival, naturalmente: ma in Italia, oggi, di festival così c’è solo Club to Club) è proprio che riduce categorie come “giovani”, o “intellettuali”, o etichette orride come “popolo della notte”, “club culture”, o persino “techno” o “musica elettronica” a quello che sono. “Etichette”, appunto: parole che contengono significati, persone, ideologie, oggetti e soggetti molto diversi fra loro, ma che perdono del tutto ogni forza nel momento in cui si prova a generalizzare e incasellare il loro contenuto (un bellissimo verbo inglese per dirlo: to pigeonhole, da “pigeonhole”, “piccionaia”).

Ogni progetto culturale degno di questo nome dovrebbe al contrario contenere questo tipo di apertura mentale, ed è quello che Club to Club cerca di fare da diversi anni (quindici quest’anno, and counting). Mai pensare, se si vuole sopravvivere e non fare un torto alla propria intelligenza, che il pubblico di un festival o di un genere musicale sia “quello”, e non un altro: il giovane studente di filosofia (o di musicologia) va al Lingotto e balla fino alle sei. Il “popolo della notte” può anche entrare in Conservatorio per ascoltare da seduto. Io – per dire – non sono né l’uno né l’altro, e faccio entrambe le cose con grande piacere.

Intanto la coda è finita. Avevo visto Apparat – alias Sascha Ring – in due altre occasioni: a Club to Club qualche anno fa al Teatro Carignano (era da poco uscito il disco di canzoni The Devil’s Walk), e qualche tempo dopo a Barcellona (aveva suonato le sue meravigliose musiche teatrali per Krieg und Frieden). La serata di quest’anno era dedicata alle sue molte colonne sonore (fra cui quella per Il giovane favoloso di Mario Martone).

Grande musica, grande interazione fra i musicisti (quattro, a giostrarsi fra violino, violoncello e vari altri oggetti sonori “tradizionali” e digitali), e grande interazione con i visuals a cura di Transforma, in cui una serie di videocamere, filtrate digitalmente, riprendono oggetti semplici (pezzi di vetro, lame, perfino dita) e proiettano sullo schermo immagini materiche, una sorta di “glitch” visivo rigorosamente analogico.



Il concerto fila fra momenti esaltanti (la prima parte, più incentrata sulle colonne sonore) e fasi forse meno incisive (le canzoni, alcuni interventi degli archi) almeno rispetto al mio ricordo dei precedenti concerti, ma il successo – già certificato dal sold out annunciato – non è mai in dubbio, e il pubblico applaude felice. Compresi, immagino, i giovani studenti di filosofia, che ho perso di vista entrando.

Successo annunciato e sold out da tempo era anche il concerto di Floating Points al Teatro Carignano, alla mezzanotte in punto (un po’ dopo, in realtà) del giovedì, in concomitanza con l’uscita ufficiale dello splendido Elaenia, suo debutto in forma lunga. Il giovane musicista di Manchester (con un PhD in neuroscienza: ah, questi musicisti elettronici) si presenta con una band di otto elementi, con basso-chitarra-batteria e otto fra fiati e archi, oltre a se stesso fra synth e piano elettrico. Il risultato è, purtroppo, meno interessante di quanto il disco e la caratura del progetto avrebbero fatto sperare (l'aspettativa, c'è da dirlo, era molto alta). In alcuni momenti il sound sembra occhieggiare a un progressive-jazz un po’ di maniera, e servono un paio di lunghi brani per trovare amalgama e un groove efficace, ma forse è solo una questione di rodaggio dell’ensemble, ancora all’inizio del tour.

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