Lo stato dell'arte

Il jazz europeo si confronta alla European Jazz Conference di Budapest

Recensione
jazz
L’annuale European Jazz Conference che riunisce i membri dello Europe Jazz Network e molti altri curatori, agenti, critici e musicisti si è tenuta quest’anno a Budapest, città che nelle ultime settimane è stata al centro delle cronache per ragioni assai più urgenti e drammatiche di quelle di tipo musicale.

Se ne parla da subito, di questa grave situazione, alla Conference. Impossibile non tenere conto che una musica così inclusiva e simbolica come il jazz è per natura una forza culturale opposta alla condotta illiberale del governo magiaro: la presidente di EJN, l’inglese Ros Rigby, annuncia una comunicazione ufficiale che qui vi linkiamo e che si riallaccia direttamente al manifesto originale dell’associazione.

Al viaggiatore che arriva a Budapest in realtà quel dramma rimane fondamentalmente celato: la città è nel primo giorno luminosa di sole (andrà assai peggio i giorni successivi, bagnati da una pioggia costante), piena come al solito di turisti, ricca di angoli tranquilli, di piccole e grandi magie e accoglie i partecipanti con un mood positivo che si percepisce subito negli spazi del bellissimo Budapest Music Center.



Davvero un gioiello, inaugurato nella primavera del 2013, questo palazzo contiene una grande sala da concerto, uno splendido jazz club, una biblioteca fornitissima, la sede della Eötvös Music Foundation, diverse sale multifunzionali più piccole e uno studio di registrazione. Un vero centro di produzione e diffusione culturale di altissimo profilo in cui vivremo per tre giorni dal mattino alla notte con grande piacere.

Quello che si percepisce subito alla Conference è una grande voglia di ritrovarsi (per chi già si conosce), di conoscersi (per chi è qui per la prima volta, come me), di condividere esperienze e pensieri e mi colpisce molto che quasi tutti lo facciano vogliosi di ascoltare gli altri più ancora che di magnificare il proprio lavoro.

C’è chi è più intraprendente e sistematico, chi va a “pelle” e a sguardi, pian piano ci si inizia a conoscere tutti e al più tardi il sabato anche quei volti che stiamo vedendo da un paio di giorni sono diventati un nome, un luogo, un festival, un progetto, una piccola storia.

La Conference infatti vive delle attività programmate così come di questo costante brulicare di conoscenze, senza l’incalzare un po’ oppressivo dei grandi appuntamenti fieristici, ma con un bel respiro medium tempo che lascia spazio a tutti.

Le attività ufficiali si aprono con una curiosa e applaudita conferenza/performance del vibrafonista tedesco Christopher Dell, che si muove tra urbanistica e jazz alternando le parole alla musica, sottolineando l’importanza dell’improvvisazione nella creazione e nella ridefinizione degli spazi urbani.

Nei giorni successivi assistiamo a un bel focus sulla scena jazzistica ungherese, in cui a esperienze più formalizzate come lo stesso BMC o Trafò viene abbinata l’avventura più “alternativa” di un festival come Mediawave; a uno sulla scena dell’Europa sud-orientale, che ha visto protagonisti i Festival di Lubljana, Saraevo, Skopje e Sani, vicino Salonicco, e a un lungo pomeriggio dedicato a alcune esperienze dell’America Latina.

È stato poi fatto il punto sulle progettualità di EJN che sono sostenute dai finanziamenti europei di Creative Europe: è una densa rosa di progetti, che si muovono tra integrazione e migrazione (è il caso di Yolda, en route, che ha fatto ripercorrere a alcuni musicisti le rotte dei migranti turchi verso il Belgio negli anni Sessanta), le radici comuni del jazz europeo (Francesco Martinelli curerà una pubblicazione su questo), la mobilità degli spettatori e il confronto tra i numeri dei vari festival, lo sviluppo di programmi specifici per i bambini, la sostenibilità ambientale e un più stretto rapporto con le istituzioni di formazione musicale.



Tutti temi che sono poi riemersi nei diversi tavoli di lavoro che hanno messo a confronto diretto i vari operatori.
Io ho partecipato a quello dedicato al programma di ricerca “Strenghts in Numbers” (curato da Fiona Goh), in cui sono stati condivisi stimoli a confrontare le esigenze delle comunità di spettatori assieme ai numeri degli organizzatori e in cui si è sottolineata l’importanza di contare su dati, analisi e benchmark affidabili per interloquire con le istituzioni e i possibili finanziatori (una necessità che avevo già sottolineato anche a livello nazionale, dove invece regna ancora una certa fumosità per quanto riguarda i numeri reali sul jazz).

Mi sono poi spostato al tavolo di lavoro dedicato all’audience development (guidato da Kornelia Vossebein del Festival di Moers), nel quale si sono messe a confronto differenti esperienze, è emerso una volta di più come ci sia una forte esigenza di intercettare nuove comunità di ascoltatori, quanto siano importanti le scuole e come sia stimolante cercare di trovare nuovi spazi.

È evidente, anche se a volte non è semplice “maneggiare” la cosa, che porsi il problema dell’audience development (che è anche uno dei cardini attorno a cui il programma comunitario Creative Europe si muove nella scelta delle progettualità da finanziare) significa anche farsi domande sulle strategie artistiche, anche perché c’è sempre una maggiore richiesta di un coinvolgimento differente da quello della sola esperienza del concerto, specialmente da parte di ascoltatori più giovani.

Essere un italiano alla European Jazz Conference è un’esperienza curiosa: EJN è un’organizzazione che ha un cuore italiano, non solo perché nasce in Italia, ma perché l’ufficio operativo attuale è interamente italiano (Giambattista Tofoni, con Francesca Cerretani e Stefano Zucchiatti, ha fatto un lavoro egregio qui a Budapest, sia dal punto di vista organizzativo che di facilitazione delle relazioni).
Non erano però molti i direttori di festival italiani presenti (meno delle dita di una mano, per intenderci), cui si sono aggiunte un paio di booking agent/manager, il già citato Martinelli e me.
Un po’ poco, tenuto conto che nel nostro paese è ancora molto scarsa sia l’attenzione alle best practices continentali, sia la capacità di fare rete, per cui un giretto a Budapest non avrebbe fatto male.

Certo, da italiano, è sempre un po’ frustrante sedere a tavoli di lavoro in cui la tua interlocutrice dalla Norvegia può con nonchalance raccontarti di programmi di diffusione del jazz tra i bambini lautamente sostenuti dal governo, così come altri possono fregiarsi del coinvolgimento di strutture educative in cui la musica ha il peso culturale che le spetta.
Ma vale certamente la pena mettere sul tavolo anche la propria presenza, anche perché molti direttori di festival mi hanno candidamente confessato di non programmare quasi mai musicisti italiani, di cui ignorano spesso – eccettuati due o tre “big” – nomi, valore e progetti.

(E non è forse un caso che nel bel jazz club del BMC nell’ultimo mese l’unico gruppo italiano sia arrivato in quanto appoggiato da Puglia Sounds, cioè da un’azione di sostegno ai musicisti e alla loro circuitazione).

Non che il quadro complessivo che è emerso dai tre giorni di Budapest sia necessariamente tutto rose e fiori, intendiamoci.

Curiosamente – e dire in modo un po’ inquietante – si sono captati più volte, durante le conferenze e i tavoli di lavoro, segnali di un certo disagio nei confronti della stessa parola “jazz”, da più parti segnalata come in grado di scoraggiare e allontanare nuovi possibili ascoltatori, in quanto associata a pratiche e modalità di fruizione che le generazioni più giovani non riconoscono come significative.

Se a questo aggiungiamo che, senza mezzi termini, più di qualche operatore – anche dai virtuosi paesi nordici – ha ammesso candidamente di usare dei “trucchi” per allargare il proprio bacino di pubblico, un po’ viene voglia di farsi qualche domanda scomoda sulla “salute” di una parte di questa musica.

Però si è percepita un’energia e una voglia di condivisione che certo è più stimolante dell’isolamento un po’ tra il furbesco e il brontolone che attraversa una buona fetta del nostro jazz.

Nelle sere poi, abbiamo assistito a diversi showcases dedicati al jazz ungherese. Tra le cose che mi sono più piaciute segnalo il trio di Kristòf Bacsò, l’eccellente Collective di Istvàn Grencsò impreziosito dalla presenza di Rudi Mahall, la talentuosa vocalist Veronika Harcsa (che nelle mani di un produttore avveduto può avere un futuro indie) e il vigoroso sax di Viktor Toth, nonché il free dell’AMP Trio che ha accompagnato un piacevole brunch conclusivo la domenica mattina.



L’Europa del jazz (o perlomeno quella che ha scelto di riconoscersi e confrontarsi sotto la sigla Europe Jazz Network) ha voluto ancora una volta ritrovarsi per rinnovarsi. I temi sollevati sono molti, a volte contraddittori, a volte sintomatici del fatto che il continente si muove a due (se non tre) velocità diverse a seconda della latitudine, a volte si cerca forse impropriamente di ragionare con parametri che appartengono a altri settori più facilmente targhettizzabili, a volte ci si sottovaluta (e spesso si evita di rivolgersi ai fondi europei perché comunque la rendicontazione è complessa e a Nord non ne hanno bisogno e a Sud sanno fare in pochi le applications come si deve).

Però non manca la voglia di confrontarsi e conoscersi. Ed è un ottimo punto da cui partire o, se già si è qui, continuare.

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