MITO 2 | Un cantiere in cui sperare

Le "musiche altre" e la credibilità di un festival: per una rifondazione di MITO

Recensione
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Ad ogni fine di festival, in attesa del festival nuovo, i discorsi degli appassionati e degli operatori assomigliano molto a quelli degli anziani che fissano i cantieri. “Eh ma non dovevano mica programmare quello lì”, “Eh ma una volta era meglio”, “Eh ma l’anno prossimo… mica dura”, “Eh ma se non hanno i soldi, cosa devono fare?”, “Eh ma la formula non funzionava più”, e via così.

MITO è finito, e la dimissione dei vertici (Restagno e Micheli), nonostante le dichiarazioni di intenti degli assessori Braccialarghe e Del Corno, rende lecito dubitare sul futuro del “Festival delle due città” così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Non è detto che sia un male. Provo a spiegarmi.

In una delle ultime sere sono stato al Folk Club a sentire il duo Martin Hayes (violino) e Dennis Cahill (chitarra), con ospiti Fabio Rinaudo e Michel Balatti dei Birkin Tree a uilleann pipes e flauto traverso. Un concerto fantastico, con musicisti incredibili, goduto a pochi metri di distanza come solo il Folk Club può garantire. L’ho visto in un Folk Club pieno come raramente l'avevo visto, con persino i posti in piedi davanti al bancone del bar venduti.

Merito di alcuni fattori. Il primo, naturalmente, è il concerto stesso: musica irlandese (genere che ha un suo nutrito seguito) ad altissimo livello, e del tipo di musica irlandese che ci si aspetta all’estero, con una sua patina di “tradizionalità”, diciamo (ma basta sentire uno degli altri progetti di Hayes, The Gloaming, per capire che c’è un mondo di suoni che ci stiamo perdendo, ad inseguire “la tradizione”).



In secondo luogo, c’entra quello che altrove avevo chiamato "l’effetto MITO": la potenza di comunicazione di un festival che gode un’altissima credibilità fra il pubblico – anche fra il pubblico non specializzato, quello che andrà a una decina di concerti all’anno, e che va a MITO perché è MITO.

Questa credibilità è stata costruita in anni di buone programmazioni, ed è uno strumento imprescindibile di politiche culturali serie. Nel caso specifico, c’entra ovviamente anche, o soprattutto, la credibilità del Folk Club, che organizzava il concerto, ma le “facce nuove” al club di via Perrone non erano poche: effetto MITO, sicuramente.

Non provo neanche a entrare nel merito della programmazione classica del Festival (materia per cui non ho le competenze necessarie). Ma, per quanto riguarda le musiche “altre”, posso azzardare qualche considerazione. Quest’anno il programma era decisamente snello, con fondi tagliati e organizzazione in molti casi delegata in toto ai partner (è il caso del concerto di Folk Club, per esempio): pochi eventi di livello internazionale (Hindi Zahra a Milano, e qualcos’altro), alcuni buoni artisti intercettati in tour (come è naturale che sia), molte cose già viste in altri contesti, poche sorprese. Poche, soprattutto, le idee fresche. Il problema non riguarda solo la world music: con tutto il rispetto per la qualità del musicista, un festival internazionale non può puntare sempre su Stefano Bollani come nome di richiamo della programmazione jazz.

È una sorta di bisogno di garanzie, una “coperta di Linus” a cui affidarsi: i Bollani, si pensa, garantiscono il sold out, così come lo garantiscono altri spettacoli (quelli su De Andrè, per esempio, vanno da sempre per la maggiore nella programmazione di MITO negli ultimi anni).

Il problema è che la credibilità raggiunta da MITO negli anni dovrebbe aver dimostrato che si può fare biglietteria anche con idee un po’ diverse: ricordo bene, in passato, il successo di musicisti non certo noti al pubblico non specializzato. Ricordo il Conservatorio di Torino gremito per Ti-Coca, nell’anno del Focus su Haiti (e il biglietto costava 15 euro). Ricordo lo Spazio 211 imballato per i turchi Kirika, che portò Francesco Martinelli nel 2010 (una delle scoperte migliori di questi anni, per cui lo ringrazio ancora adesso). O Omar Souleyman al Teatro Espace – prima che diventasse veramente famoso nel mondo dell’elettronica – e altri esempi ancora.



Negli ultimi anni queste idee si sono perse, ed è un peccato. L’idea di un festival come contenitore democratico di tutte le musiche è eccellente e da perseguire, a condizione che sia sostenuta da una direzione artistica coraggiosa, con delle idee… e dei fondi, naturalmente, perché sempre lì si va a finire.

Ma se le “altre” musiche devono essere inserite per dovere di firma, per dire che ci sono, è meglio lasciar perdere. Anche perché la credibilità guadagnata non è eterna. Già quest’anno si sono intravisti scricchiolii, dovuti soprattutto alla contro-programmazione di altre realtà torinesi e milanesi. C’è stato un periodo in cui MITO cannibalizzava tutto il resto come una finale dei mondiali in televisione, con le altre reti ridotte a trasmettere l’ennesima replica della Principessa Sissi. Quest’anno, nei giorni del festival, sono stato a sentire Sufjan Stevens ad Assago, sold out da mesi. A Moncalieri (pochi chilometri da Torino) sono passati Bombino, Enzo Avitabile e Carmen Consoli. Gratuiti, per il festival Ritmika. Nomi da MITO, se MITO contro-programma Meg e Brunori sas.

Insomma, ripensare MITO per i prossimi anni costruendo sulla credibilità costruita in questi, senza sperperarla come si è fatto con quella di altri festival, sembrerebbe una buona idea per il futuro

Quantomeno, sarebbe un cantiere interessante da guardare.

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