Non ero mai stato a L’Aquila

"Il jazz italiano per L'Aquila", il racconto della giornata

Recensione
jazz
Non ero mai stato a L’Aquila.
Vederla per la prima volta in una domenica di settembre scintillante di sole, invasa da sessantamila persone e da dodici ore di musica in ogni angolo della città è in un certo senso straniante, perché le ferite rimaste aperte nei palazzi sono ancora oggi (a sei anni e più dal terremoto) sconvolgenti.
Ma ne valeva la pena.

Che “Il jazz italiano per L’Aquila”, l’evento organizzato per animare il centro storico con cento concerti di jazz italiano, sia stato un grandissimo successo dovreste averlo già appreso dalla stampa e dalle tante testimonianze sui social network.
E non c’è molto da aggiungere. Anche a essere partiti con i peggiori pregiudizi sull’iniziativa, sarebbe stato davvero difficile non farsi emozionare dall’energia, dall’umanità, dalla voglia di fare comunità tra musicisti e aquilani che ha acceso la giornata.

Venti diversi palcoscenici allestiti in piazze, chiese, scalinate, parchi, angoli della città, quasi seicento musicisti: appena arrivato provo a costruirmi un’ipotesi di percorso, ma dopo poco decido di lasciarmi trasportare un po’ dal caso e un po’ dall’istinto, dal momento che la contemporaneità degli eventi impedirà comunque di coprire anche solo una parte del programma.

Per le strade del centro storico ci si incontra, ci si riconosce (con un discreto carico di buffe gaffe e di agnizioni tardive, come prevedibile), ci si abbraccia, il sorriso diventa ben presto il dress code della giornata, in un continuo turbinio di esigenze, tra veloci soundcheck e la voglia di essere dappertutto.

Di alcuni concerti si ascoltano dei frammenti, nessuno perde la pazienza anche se si sta stretti, colgo un paio di brani del quartetto di Roberto Gatto e di quello di Rosario Giuliani per poi inoltrarmi nel cuore più martoriato della città, con fette di quotidianità (uno scaffale di libri impolverato, vestiti rimasti in un solaio, il poster della stanza di uno studente) fermate nell’istante impudico della loro drammatica interruzione.



Sbagliando strade, trovandomi in vicoli chiusi da transenne, scendo fino alla meravigliosa fontana delle 99 cannelle, dove ascolto un bel duetto di chitarre tra Bebo Ferra e Francesco Diodati.

Intanto il corso principale è saturo di persone, con le tante bancarelle (pannocchie, crêpes, panini, insaccati, pizze fritte, birre) prese d’assalto da code ordinate e pazienti. Il suono festoso di una brass band si apre un varco tra la folla, io torno verso il Castello e a un certo punto non si passa perché il pubblico del duo Giovanni Guidi & Gianluca Petrella blocca completamente il passaggio. Nessuno si innervosisce, ci si scansa o, meglio, ci si ferma a ascoltare.



Cerco di chiedere a quanti più aquilani incontro cosa ne pensano dell’iniziativa e le risposte sono di univoco entusiasmo.

Belle le location dentro il Parco del Castello: fuori dell’auditorium c’è un bellissimo spazio dedicato al jazz per i bambini e ci trovo i ragazzi della RusticaXBand diretti da Pasquale Innarella. Dalla cannoniera della Fortezza Spagnola si affacciano i suoni del quartetto Saxea, sul ponte nell’altro lato della Fortezza ascolto un pezzo del trio di Flavio Boltro e chiacchiero un po’ con Daniele Cavallanti e Emanuele Parrini che suoneranno dopo poco.

C’e una folla emozionante in Piazza Santa Margherita per il concerto di Ada Montellanico (importantissimo il contributo del Midj - da lei diretto - in questa bella giornata), ma la gente è ovunque. Torno fino a Piazza Chiarino dove stanno suonando Nicola Fazzini, Alessandro Fedrigo, Luca Colussi e Dario Volpi: dietro di loro i silos del calcestruzzo raccontano l’eterna promessa di ricostruzione della città.

Uno dei luoghi più suggestivi è la scalinata di San Bernardino: il palco è alla base e quando suona il quintetto di Paolo Fresu è gremita che non passa uno spillo. Mi fermo pochi metri più in là, sotto i portici, per ascoltare Antonello Salis in uno dei soli sinceri e viscerali cui ci ha abituato da anni.



Ci si incontra con musicisti, colleghi, curatori, la gente è sempre di più e la musica è ovunque. Incrocio il direttore artistico della Bimhuis di Amsterdam che con lo sguardo incantato mi dice «è meglio che al North Sea Jazz Festival!» e intanto mi accorgo che le mie gambe hanno bisogno di un po’ di riposo se no non arrivo alla fine della giornata.

A cena parliamo con una adorabile coppia non più giovane che ci racconta commossa (e commovente) la loro storia. Sono anch’essi felicissimi e riconoscenti per questa giornata di musica nella loro città.

La serata si svolge in Piazza Duomo: ascoltiamo l’Orchestra Nazionale Giovani Talenti di Jazz e il quartetto “giovane” di Enrico Rava; Enrico Pieranunzi e Franco D’Andrea in solo, il duo Marcotulli/De Vito e il vibrante quintetto Cosmic Renaissance di un Petrella che Carlo Massarini si ostina a chiamare Tommaso invece di Gianluca.

C’è anche Gino Paoli, con il consueto apporto di Danilo Rea & co. Il clima è sempre festoso, ma davvero sentirlo intonare "Sapore di sale" o "La gatta" suona come qualcosa di del tutto superfluo e fuori luogo. Non si tratta tanto di purismo “jazz” o di sistematica avversione a un certo tipo di operazione, quanto della constatazione che questa giornata è stata una festa a prescindere dal nome di chi suonava, è stata una festa dove ognuno delle centinaia di musicisti ha fatto sentire uniti una città distrutta e un mondo del jazz che (ne parleremo tra poco) non se la passa nemmeno lui troppo bene. E allora Gino Paoli non serviva.

Chiudo la serata ascoltando il dj-set di Nicola Conte in Piazza Chiarino, la stanchezza è pari alla felicità di tutti, gli ultimi abbracci si spengono sulla via verso la macchina. Anche a volere male a L’Aquila o al jazz (e come si potrebbe?) non si potrebbe definire questa giornata meno che magnifica.

Detto questo, qualche ulteriore riga a mente fredda si può e si deve spendere.

Onore all’iniziativa e a chi l’ha promossa e permessa (il Ministero, la città dell’Aquila, Paolo Fresu, IJazz, il Midj, la Casa del Jazz, la tanto discussa Siae, ma soprattutto le decine di persone che hanno lavorato con grande amore e fatica per far riuscire un evento non facile da organizzare).

Franceschini, dal palco di Piazza Duomo, già annuncia con il sindaco Cialente una seconda edizione per il prossimo anno e c’è da sperare che il mood di domenica non si trasformi in qualcos’altro, che non avvenga quello che un amico ha definito “l’effetto taranta”, nonché si spera che questa possa essere l’occasione per invitare anche molti musicisti che quest’anno non c’erano e sarebbero dovuti esserci, così come per invitare quanti più operatori internazionali a conoscere il lavoro dei musicisti italiani (molti erano al Belgian Jazz Meeting di Bruges questa stessa domenica a apprezzare i colleghi di quel paese, prendere esempio please).

Perché finita la doverosa festa, sia per L’Aquila che per il jazz in Italia, c’è ora molto da lavorare, basi e altezze da ricostruire, ci sono ritardi da colmare e strategie da pensare insieme.

Perché i musicisti, uniti da abbracci e sorrisi, dovranno capire se farsi rappresentare da Midj (prossimo appuntamento a Milano il 12 settembre) o da chi vorranno loro, o accontentarsi solo delle polemiche su Facebook (molte delle quali acute e necessarie, anche se purtroppo del tutto inefficaci a livello pratico).

Perché tutto il settore (organizzatori, politici, manager, stampa) deve guardare a esperienze di maggiore maturità strategica, di respiro europeo, fornendo agli interlocutori istituzionali numeri e progettualità (nonché un’azione di controllo) che possano bypassare il più possibile i più miseri giochetti politici.

Perché un jazz italiano che creda davvero nelle proprie potenzialità non può – lo sottolineo con forza – non può essere rappresentato da un Gino Paoli headliner che canta "Senza Fine" come fosse ospite di Pippo Baudo. Pena il rimanere legato a logiche piccole e provinciali che le nuove comunità di spettatori non capiranno né tantomeno sentiranno proprie.

Se questo, anche solo in parte, inizierà a accadere (così come la ricostruzione di quella bella città), allora sì potremo davvero dire che “Il jazz italiano per L’Aquila” è stato il simbolo dell’inizio di un cambiamento.

Non ero mai stato a L’Aquila. Spero di tornarci presto.

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