Danzare ad Auschwitz

sopravvivere e vivere dopo l'Olocausto

Recensione
jazz
Alcuni giorni fa Repubblica on line ha rilanciato un’opera di Jane Korman “I Will Survive: dancing at Auschwitz” del 2009. L’artista australiana ha filmato suo padre, 89 anni, scampato ad Auschwitz, e i figli di lei, che ballano sulla note di “I Will Survive” di Gloria Gaynor davanti a vari monumenti e luoghi dell’Olocausto. L’artista ha evitato qualsiasi cura “professionale” nella danza e nel montaggio: nonostante l’attenzione a certi dettagli, sembra un filmino amatoriale messo insieme alla buona. Una scelta sensata per non rendere falso l’accostamento con i luoghi del dolore.
Una parte della comunità ebraica internazionale ha trovato offensivo l’accostamento tra la canzone e l’Olocausto, e il divieto di eseguire Wagner in Israele ci ricorda che la musica può avere una carica simbolica negativa. Certo ci vuole un’enorme cautela quando si legano questioni così enormi a certe piccole banalità quotidiane: ma nessuno più di un sopravvissuto può farlo. Come nel bellissimo documentario Pizza ad Auschwitz di Moshe Zimerman, in cui il protagonista, che con i figli riluttanti ripercorre la deportazione, alla fine si mangia un trancio di pizza in una pausa tra i tavolacci del dormitorio di Auschwitz.
L’operazione della Korman è ricca di risonanze, perché in alcuni campi di concentramento e sterminio si faceva musica. Forzatamente, in una condizione di grottesca e tragica contraddizione tra il piacere del suonare e la morte onnipresente. Il compositore Viktor Ullman ha avuto la forza di scrivere un ultimo capolavoro come L’imperatore di Atlantide a Theresienstadt, il campo di concentramento “umano”, di facciata, approntato per tenere buona la Croce Rossa. E conosciamo l’esperienza di Olivier Messiaen, che nel 1940 scrisse ed eseguì il Quartetto della fine dei tempi nel campo di prigionia di Görlitz. Il geniale Erwin Schulhoff non ebbe la stessa fortuna: morì nel 1942 nel campo di concentramento di Wülzburg.
La verità è che la musica è sempre espressione di vita e di comunità. La famiglia Korman - tre generazioni: capostipite, figlia e nipoti - torna sui luoghi del massacro, ne calpesta il terreno e danza, riappropriandosi del territorio e del senso dell’esistenza. Dunque un rito giocondo che va oltre le parole della canzone: essi non sono meramente sopravvissuti, bensì vivono, pienamente. Grazie anche alla forza travolgente di una bella canzone.



Pizza ad Auschwitz

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